Collochiamoci approssimativamente nella prima metà del ‘500, in una parte di quel territorio che oggi è chiamato Messico, precisamente nella regione del Chiapas. In questo quadro fa la sua comparsa la figura di Malinalli Tenépatl, la Malinche o Doña Marina. La Malinche è una donna mexica che da piccola viene ceduta come schiava ai Maya di Tabasco, la sua lingua materna è il nàhuatl e la lingua dei suoi padroni il maya. Viene regalata come schiava a Hernán Cortés il 15 marzo 1519, fa da interprete náhuatl-maya, mentre il naufrago spagnolo Jerónimo de Aguilar traduce dal maya allo spagnolo, finchè non apprende anche quest’ultimo idioma. Battezzata ed apostrofata come Marina la Lengua, ebbe un figlio illegittimo da Cortés, uno dei primi meticci di cui la Storia americana mantiene memoria. Marina giocò un ruolo fondamentale nella conquista del Messico. Bernal Díaz del Castillo, nella sua Historia verdadera de la conquista de la Nueva España, ne fa ripetuti elogi e registra la gioia degli spagnoli all’apprendere che era scampata alla Noche Triste. In seguito Cortés la fece sposare all’hidalgo Juan Jaramillo, da cui sembra aver avuto una figlia. Morì a causa di una epidemia di vaiolo. Per i messicani la figura di Malinche spesso si sovrappone a quella della Chingada, che potremmo tradurre come “la violata”. Traduco, integro e riassumo liberamente dal Laberinto de la soledad di Octavio Paz (1950):
“Chi è la Chingada? Prima di tutto, è la Madre, una figura mitica. Una delle rappresentazioni messicane della maternità, come la Llorona, il fantasma che cerca e piange i suoi figli, o la “sufrida madre mexicana” che si festeggia il 10 maggio. La Chingada è la madre che ha sofferto, metaforicamente o realmente, l’azione corrosiva e infamante implicita nel verbo che le da il nome. Chingar, violentare, implica tra le altre cose l’idea di fallimento. In Messico i significati della parola sono innumerevoli. E’ una parola magica. Basta un cambiamento di tono, un’inflessione appena, per variarle il significato. Esistono tante sfumature quante intonazioni: tanti significati quanto sentimenti. Sopra ad altri: violenza. E’ un verbo maschile, attivo, crudele: colpisce, ferisce, strappa, macchia. E provoca un’amara, risentita soddisfazione in chi lo esercita. Chingado è il passivo, l’inerte e aperto, in opposizione a chi chinga, attivo, aggresivo e chiuso. Chingón è il maschio, chi apre. La chingada, la femmina, la passività pura, inerme di fronte all’esterno. La relazione tra i due è violenta, determinata dal potere cinico del primo e l’impotenza dell’altra. L’idea di violenza regge oscuramente tutti i significati. La dialettica del chiuso e dell’aperto si compie così con precisione quasi feroce. Il potere magico della parola si intensifica con il carattere proibito. Non si dice in pubblico. Solo un eccesso di collera, un’emozione l’entusiasmo delirante, giustificano l’espressione. Una voce che si usa solo tra uomini, o nelle grandi feste [si noti la connotazione identitaria con la nazione]. Hijos de la chingada: Per il messicano la vita è una possibilità di chingar o di essere chingado. Vale a dire, di umiliare, castigare e offendere. O l’inverso. Questa concezione della vita sociale come combattimento genera fatalmente la divisione della società in forti e deboli. I forti, i chingones senza scrupoli, duri e inesorabili si circondano di fedeltà ardenti e interessate. Il servilismo di fronte ai potenti – specialmente tra la casta dei “politici”, è tipico dei professionisti degli affari pubblici – è una dele deplorevoli conseguenze di questa situazione. L’altra, non meno degradante, è l’adesione alle persone e non ai principi. Frequentemente i nostri politici confondono gli affari pubblici con quelli privati. Non importa. La loro ricchezza o l’influenza presso l’amministrazione gli permette di sostenere una masnada che il popolo chiama, giustamente, di “lambiscones” (lecchini). Non è un segreto per nessuno che il cattolicesimo messicano si concentra nel culto alla Vergine di Guadalupe. In primo luogo: si tratta di una Vergine india; poi: il luogo della sua apparizione (all’indio Juan Diego) è una collina che prima ospitava un santuario dedicato a Tonantzín, “nuestra madre” dea della fertilità azteca. In contrapposizione a Guadalupe, che è la Madre vergine, la Chingada è la Madre violentata. Doña Marina si è convertita in una figura che rappresenta le indie, fascinate, violate o sedotte dagli spagnoli. E come il bambino non perdona sua madre che lo abbandona per andare in cerca di suo padre, il popolo messicano non perdona il tradimento della Malinche. Lei incarna l’aperto, il violato, di fronte ai nostri indios, stoici, impassibili e chiusi. Cuauhtémoc e doña Marina sono così due simboli antagonisti e complementari. E se non è sorprendente il culto che tutti professiamo verso il giovane imperatore -”único héroe a la altura del arte”, immagine del figlio sacrificato -, nemmeno è inconcepibile la maledizione che pesa sulla Malinche. Da qui il successo dell’agettivo dispregiativo “malinchista“, recentemente messo in circolazione dai giornali per denunciare tutti i contagiati da tendenze esterofile. I malinchistas sono coloro che ritengono che il México debba aprirsi all’esterno: i veri figli della Malinche, che è la Chingada in persona. Di nuovo appare il chiuso in opposizione all’aperto. La strana permanenza di Cortés e della Malinche nell’immaginazione e nella sensibilità dei messicani contemporanei rivela che sono qualcosa di più che figure storiche: sono simboli di un conflitto segreto, ancora irrisolto.”
La Malinche è insomma un simbolo maledetto e ambivalente, come osserva Cristina González nel suo libro*, di un archetipico tradimento delle proprie origini e della patria: del resto esiste una precisa correlazione semantica tra la traición, il tradimento, e la traducción, la traduzione. Ma allo stesso tempo è un forte simbolo materno, la cui passività consente a lei stessa ed alla sua progenie di sopravvivere, modificandosi, adattandosi, diventando altro: il paradossale paradigma del meticcio.
*Doña Marina la Malinche y la formación de la identidad mexicana del 2002