Lo chiamano ‘troppo amore’, lo chiamano ‘raptus’, ‘follia momentanea’.
Lo dicono sospirando, con un’alzata di spalle. Una delle tante, aggiungono. Succede.
Le parole, però, hanno uno strano potere.
A volte bastonano, altre si svuotano e perdono tono. Si ha paura, delle parole. Di certe parole.
Il vero nome della violenza al suo massimo grado incute terrore.
Lo si vuole nascondere sotto strati di giornali avariati, vuoti, tra le costole cadenti di una società che sa, ma non vuol sapere, che non sa e non vuole rischiare.
Non se ne vuole parlare, si ha fretta, c’è la crisi, non è il caso.
Però, quando una donna viene uccisa, violentata, perseguitata, qualcosa, all’interno della società si lacera di colpo.
I giornali spendono qualche riga, per tappare i buchi, per scaramanzia. Per far vedere che sono bravi, che sono indignati, che sono progressisti.
Le poche parole che vengono dette sono pallide, inadeguate. Buttate lì quasi per caso.
In mezzo, c’è sempre qualcosa di non detto, di ‘proibito’. Vengono lasciate in sospeso, a metà.
Meglio così, si sussurrano, inscatolate nei loro soliti stereotipi sicuri abbastanza, fermi abbastanza, stabili abbastanza.
Le opzioni, allora, sono due. O si butta il giornale da una qualche parte, fuori dai piedi, si cambia canale, si gira pagina, o ci si continua a logorare dentro le frasi.
Si rilegge una, due volte. Se proprio si è coraggiosi, tre. Si notano gli spazi bianchi. Si notano i buchi. No, aspetta, i conti non tornano.
Sì, le parole hanno uno strano potere.
A volte capita che siano echi di rivolta. A volte capita che si sveglino.
Perché non è ‘troppo amore’, non è ‘raptus’, non è ‘follia momentanea’. È femminicidio.
Allora non c’è più scampo. È chiaro quanto sia fragile il vuoto tra le righe.
Perché è una parola che brucia gli occhi, le orecchie, lo stomaco. Perché femminicidio, è l’incastro di sangue, lo strappo rosso dentro il silenzio.
Perché è il primo punto per ricucire il vuoto.