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“Parole in disordine” di Alena Graedon: un bellissimo romanzo che avrebbe potuto essere scritto

Creato il 02 novembre 2015 da Alessiamocci

The Word Exchange, titolo originale di Parole in disordine (Bompiani 2015), già di per sé conterrebbe tutto quello che vi serve sapere per capire l’intenzione con cui Alena Graedon ha scritto questo romanzo.

Immaginate una mercato delle parole, simile a quello azionario, in cui comprare quelle che vi servono.

Non ricordate come sia quella parola che si usa per dire che un qualcosa è definito in primo luogo da un qualcos’altro, che ha soprattutto certe caratteristiche…? Non vi ricordate neanche molto bene come definirla, questa parola…? Nessun problema, se siete interconnessi con un’app che conosce le vostre esigenze meglio di voi: con € 0,99 “precipuo” vi sovverrà, pronta all’uso!

E com’è che si dice quando sei triste ma non proprio, un po’giù di morale, come certi paesaggi che sono belli ma…? Ed ecco che “malinconico”, per altri € 0,99, spiccherà un balzo dalla punta della vostra lingua!

Ma quanto costa parlare quando, a furia di dipendere da una simile prodigiosa app, non ricordate più parole come “fondamentale” o “assumere” o “dietetico”? E, quando si arriva alla scomparsa di “certo” e “forse” e “oggi”?

Immaginate poi che questo mercato – come viene criticato a quello finanziario – cominci a creare una scollatura tra le “parole-azioni” che vende e il significato a cui si dovrebbero riferire. E che cominci a vendere parole inventate, che voi stessi potreste inventare. “Mostufro”, ad esempio, potrebbe indicare “il fastidio causato dall’arrivare in stazione mentre il treno sta già partendo”. Ma in un mondo in cui il legame tra significato e significante si scolla sempre più, come si scolla il valore sul mercato di un’azienda dal suo valore reale (sempre che esista – ma qui si aprirebbe un capitolo che lascerò con piacere a chi s’intende di finanza), “mostufro” potrebbe anche significare “la voglia di vomitare che viene annusando il tipo di alcolico con cui ci si è ubriacati la sera prima” o “la branca del sapere che studia gli effetti rilassanti di farsi sciogliere un cono gelato sulla faccia” o quello che volete, che esista o meno – sempre che l’esistenza delle cose non dipenda dalla nostra capacità di raffigurarcele grazie a un sistema di segni, quale la lingua è – e questo è un capitolo che Alena Graedon avrebbe potuto aprire. Avrebbe potuto. Condizionale passato. Avrebbe potuto ma non l’ha fatto. La lingua permette di creare sfumature cruciali per parlare del mondo, per interpretarlo e quindi modificarlo. Che cosa succede quando tali sfumature vengono meno nel codice che usiamo per descriverle?

Ma passiamo ad altro, per il momento, perché Parole in disordine riunisce in sé diverse questioni scottanti.

Immaginate un mercato delle parole gestito alla maniera di Facebook. Immaginate di poter inventare una nuova parola, di poterla immettere in questo mercato e di ricevere un quantitativo di soldi proporzionale ai “mi piace” che la parola da voi coniata riceve. Non importa che sia utile, accurata, che si riferisca a qualcosa di esistente o meno, che sia intrinsecamente offensiva o che sia frutto di un pensiero più di pancia che di testa: quel che conta è l’indice di gradimento.

Infine, immaginate che il programma che regola questo mercato delle parole impazzisca, e cominci a sostituire con nomi inventati i vecchi significanti. “Mostufro” da oggi ha preso il posto di “malinconico”, per dirne una. “Non” diventa “prul”, “più” diventa “esteflaf” e “niente” diventa “ni”, e così voi prul capite esteflaf ni.

Comprerei subito un romanzo imperniato su una simile idea – su un mercato azionario delle parole contaminato dalla logica della finanza e da quella dei social, dalla logica della speculazione e dell’indice di gradimento, corrotto da un virus che accelera il processo che rende arbitrario il collegamento tra significati e significanti. Ma non l’ho comprato, me l’hanno regalato. E Graedon, in realtà, non l’ha scritto.

Quello che intendo dire è che l’autrice, avendo tra le mani un dispositivo complesso e sofisticato, capace di mostrare l’enorme impatto che la manipolazione di una lingua potrebbe avere sulla società (e che ha sulla società), sembra aver scelto la via più semplicistica di sfruttarla. È come se avesse invitato Machiavelli, Hobbes e Bentham a cena per discutere di quanto cattivi siano i terroristi, e decidendo che i terroristi lo sono (lieve differenza tra congiuntivo e indicativo) ben prima che gli ospiti potessero aprire bocca.

Il morbo del linguaggio che permea il romanzo è ridotto ai minimi termini: semplicemente, i personaggi che ne sono affetti cominciano a usare non-parole, ossia significanti alternativi ai significati originali (i “prul”, “esteflaf” e “ni” di cui sopra), in misura sempre maggiore, divenendo sempre più incomprensibili. Anche gli uni agli altri? Forse. E si tratta di sostituzioni uguali per tutti – ossia chiunque dice “prul” al posto di “non”, quale sia la sua madrelingua – od ognuno sostituisce in maniera diversa – e così io direi, anziché dire “non”, “prul”, ma qualcun altro direbbe “fna”, e qualcun altro ancora “miet”? È un dettaglio non da poco, in un romanzo che scomoda la linguistica: nel primo caso, dopo un po’, ci intenderemmo comunque, semplicemente usando significanti diversi; nel secondo caso ci sarebbe il caos totale. Quel che sappiamo è che nel romanzo di Graedon si giunge a un caos sempre più totale, ma mi sarebbe piaciuto vivere il come si giunga a ciò, passo dopo passo, anziché venire a sapere che, mano a mano che il morbo imperversa, nelle strade gli scontri urbani aumentano, nelle case l’elettricità viene meno, e via discorrendo di segni pre-apocalittici.

Non ci viene mostrato come il dimenticare sempre più parole e il dover quindi ricorrere a una tecnologia esterna per tornarne padroni modifichi i pensieri di chi vive questo processo. Non viene delineata una logica (e, se c’è, mi è sfuggita) con cui tale morbo si propraga dentro gli individui, nel sistema di segni che compone le loro lingue. Si sa solo che si inizia con l’erodere le parole meno usate nel quotidiano per poi vederne inglobate altre, ma quali e perché? Ed è veramente così? I dialoghi nel romanzo riproducono fedelmente il modo di parlare degli infetti, che sembrano perdere presa sul linguaggio secondo una logica più randomica di quella dichiarata. Parole di uso quotidiano decadono; altre, meno utilizzate, permangono:

Quanto al dottor Thwaite, mi ha aiutato in un’altra maniera. Nel buttarmi fuori casa, ha borbottato yoshem a proposito di una macchina per i fax. L’ho preso come indizio e ne ho cercata una per tutta Manhattan.

Davvero la parola “qualcosa”, qui sostituita da “yoshem”, è meno usata (e quindi più labile nella memoria, meno pronta all’uso, meno riconoscibile qualora venisse sostituita da una non-parola) di “quanto al”, o di “borbottato” o di “indizio”?

Queste riflessioni derivano dalla lettura della versione italiana, ovviamente, con tutti i limiti che ciò comporta. Alcune recensioni della versione originale parlando di un’ottima prosa – affermazione che decisamente non si può fare in relazione alla traduzione italiana. Quanta responsabilità va alla Graedon e quanta alla sua traduttrice? Nel dubbio, se potete, leggete l’originale.

Al di là della prosa, la strategia del “ti piace il gioco facile” sembra essere stata usata da Graedon come generale cavallo di battaglia. Dopo aver deciso di scrivere un romanzo che inneggia alla lingua e alle sue sottigliezze (amate da diverse dei personaggi principali – almeno, appunto, a parole), l’autrice decide di rendere il morbo pericoloso agli occhi dei lettori dandogli sembianze più facilmente riconoscibili come pericolose da chiunque: non solo questa malattia rende afasici, ma causa febbre e a volte uccide. Così, nel caso in cui Machiavelli, Hobbes e Bentham non riuscissero a dimostrare la cattiveria insita dei terroristi, si chiederà a un terrorista di uccidere un bambino davanti ai loro occhi. Perché è già stato deciso che i terroristi sono cattivi. È già stato deciso che la perdita del linguaggio è una minaccia per l’umanità, e per non rischiare di essere confutati la si rende automaticamente letale. Non si sarebbe fatto prima a mettere in gioco un qualsiasi altro generico morbo, senza scomodare l’erudizione di un’intellighenzia internazionale da cui il romanzo si fa benedire?

Se il linguaggio è così fondamentale, Graedon, mostraci che cosa accade a una società che lo perde, anziché falcidiare preventivamente chi ne è affetto. Avrei voluto vedere il processo, Graedon. Avrei voluto vedere che cosa succede alle concezioni di una persona che non sa più distinguere “atea” da “agnostica”, “domani” da “mai”, “neutrale” da “nemico”, “terrorista” da “male”, “terrorista” da “pazzo psicopatico che non ha nulla di meglio da fare nella vita che spaventare i lettori”. Insisto sui terroristi perché – spoilero senza remore – si scopre che a diffondere il morbo sono stati proprio dei terroristi, anche se non sapremo mai il perché. Avrei voluto saperlo. Avrei voluto sapere che cosa accade nella mente di una persona che non sa più distinguere l’indicativo dal condizionale e dal congiuntivo, per cui realtà e ipotesi sono la stessa cosa. Avrei voluto. Condizionale passato.

Il pensiero di Graedon, su cui s’impernia lo sviluppo del romanzo, viene forse chiarito alla fine, quando si dà voce all’Erudito del romanzo:

L’inganno di cambiare il significato delle parole è uno dei più antichi della storia. Pensa solo a “libertà” e “democrazia”…

Ha mai riflettuto, Graedon, sul fatto che le parole sono state inventate dagli esseri umani, e non viceversa? Ha mai letto un solo articolo di linguistica, un saggio per chi alla linguistica vuole approcciarsi, che le spiegasse che l’arbitrarietà tra significato e significante sta alla base della linguistica da prima che il suo Erudito – che di sapere dovrebbe essere costituito – nascesse? Che, senza scomodare i linguisti, adotta una posizione essenzialista che pochi campi del sapere umanista troverebbero sensata? E, senza scomodare gli accademici, che la democrazia ateniese e la democrazia americana in cui scrive sono due cose diverse con lo stesso nome? Che nella democrazia greca, ad esempio, lei non vorrebbe mai vivere? O forse i greci non avevano ben compreso il “vero significato” della parola “democrazia”, pur avendola inventata?

Se la mia percezione del romanzo è stata così negativa, ciò è dovuto alle alte aspettative con cui l’ho iniziato (dovute ai toni d’alta accademia con cui Graedon si erge a difesa del linguaggio). Ho trovato altre critiche negative, online, diverse dalla mia, ma soprattutto ho trovato molte recensioni positive. Se non l’avessi già letto, lo leggerei in lingua, in modo da poter “filtrare” eventuali difetti dovuti alla traduzione. È il consiglio che vi do, se avete intenzione di leggerlo – e lo farei, se fossi in voi, perché sono sempre scettica davanti alle recensioni troppo positive o troppo negative.

Alena Graedon, statunitense, si è laureata alla Columbia, dove insegna. Parole in disordine è il suo primo romanzo.

Written by Serena Bertogliatti


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