Magazine Diario personale
«Allibertatevi d’u cagnuleddu», liberatevi del cagnolino. Con queste parole, il 12 gennaio '96, Giovanni Brusca ordinò al fratello Enzo, Vincenzo Chiodo detto «Quaquarotto», Giuseppe Monticciolo e Salvatore Grigoli di ammazzare e di sciogliere nell’acido Giuseppe Di Matteo, il figlio di un pentito di mafia che avevano sequestrato nel '94, quando aveva solo 13 anni. Il verbale degli interrogatori gela il sangue. Chiodo: «Facemmo mettere il bambino faccia al muro. Fui io a strangolarlo, gli altri due lo tenevano fermo per le braccia e per le gambe. Il bambino non oppose alcuna resistenza. Secondo me, non ha capito fino all’ultimo momento. Era ormai fiacco». Monticciolo: «Poi dopo questa operazione, mentre Brusca spogliava il bambino, il Chiodo ha portato giù i bidoni dell’acido e il fusto di lamiera». Finita l’operazione, si fecero un caffè. Monticciolo: «Andammo dopo due ore a controllare. Si vedevano solo i piedi del ragazzino». Chiodo: «Ricordo che Brusca, vedendo che stavo andando a bruciare il pezzo di corda, mi disse in tono scherzoso: «Questo te lo puoi conservare come trofeo». Sono stati tanti, i bambini che negli anni sono rimasti stritolati in queste guerre infami. Tanti. Assassinati perché avevano visto qualcosa. Per punire la famiglia. Perché passavano nel momento sbagliato nel posto sbagliato. Altri hanno visto la loro vita marchiata fin dalle scuole materne, come Vitoandrea Ciancimino, che qualche mese fa ha ricevuto la sua prima letterina a 5 anni, con dentro una pallottola. Pallottola che doveva spaventare suo papà Massimo, il figlio del discusso sindaco di Palermo, colpevole di raccontare ciò che sa ai magistrati. «A un mafioso che gli fa notare come nella sparatoria sarebbero potuti morire anche bambini», ricorda Antonio Nicaso, «il boss Totò Riina risponde: "E allora? Anche a Sarajevo muoiono i bambini"».
Per questo il giornalista calabrese, che da anni vive in Canada e ha firmato una serie di libri importanti sulla criminalità organizzata internazionale, da Deadly Silence: Canadian Mafia Murders a Fratelli di sangue (con Nicola Gratteri), da Global Mafia (tradotto in francese, ungherese, indonesiano, cinese e giapponese) a ’Ndrangheta. Le radici dell’odio, ha deciso di scrivere un saggio apposta per loro, i più giovani. Si intitola La mafia spiegata ai ragazzi, è edito da Mondadori (pagine 168, 14) e si propone un obiettivo ambizioso: raccontare nel modo più semplice (e Dio sa quanto ciò sia difficile, soprattutto su certi temi) cosa sono la mafia, la ’ndrangheta, la camorra, la sacra corona unita. Qual è la loro storia. Quali sono i loro riti. Quali sono le parole chiave. Non si parla, certo, solo delle mafie italiane. Ma anche dell’americana Cosa Nostra, delle Triadi cinesi, della Yakuza giapponese, dei Vory v Zakone russi, dei cartelli colombiani e messicani, della mafia nigeriana o albanese. Il centro di gravità del libro, però, e non potrebbe essere altrimenti, è qui, nel nostro tormentato Mezzogiorno. Dove per troppo tempo, nelle scuole, nelle case, in famiglia, il tema è stato accuratamente accantonato.
«Quando ero ragazzo, di contribuire a combattere la mafia assieme alle forze dell’ordine non passava per la testa a nessuna persona "perbene"», scrive Andrea Camilleri nella prefazione del libro Oltre il buio della mafia, di Alfonso Bugea. «Le persone perbene, o meglio "civili" come si usava dire allora, la mafia semplicemente la ignoravano. Di mafia non se ne doveva parlare a casa, se per caso sotto alle tue finestre avveniva un omicidio di mafia, si chiudevano bene le finestre. Nominare la mafia in famiglia era come parlare di diarrea durante un pranzo di gala». Certo, qualcosa oggi è cambiato. La discussione sulla «materia» mafiosa nelle scuole italiane come punto nodale per il nostro vivere civile, però, è ancora sporadica. Se non osteggiata. Ecco, La mafia spiegata ai ragazzi cerca di tappare il buco. Con la spiegazione di certe parole: «"Cosca" in siciliano indica il "torso", la parte interna e nascosta del carciofo, protetta da foglie spesso spinose». Le testimonianze dirette, come quella di Leonardo Messina sulla sua iniziazione: «Con un ago mi hanno punto il polpastrello di un dito e mi hanno dato in mano una santina ( …), l’ hanno macchiata con il mio sangue, le hanno dato fuoco e io me la passavo da una mano all’altra. Poi mi hanno suggerito le parole da dire. Mi hanno detto di ripetere: "Come carta ti brucio, come santa ti adoro, come brucia questa carta deve bruciare la mia carne se un giorno tradirò Cosa Nostra"».
I proverbi su cui la mafia si appoggia: «A megghiu parola è chidda cca nun si rici». La parola migliore è quella che non si dice. Non mancano i ricordi di tante persone che alla guerra contro la mafia hanno sacrificato la vita. Da Giovanni Falcone a Peppino Impastato, da Antonino Scopelliti a don Pino Puglisi. E tanti spunti per meditare, come una frase nel diario del giudice-ragazzino Rosario Livatino, assassinato vent’anni fa ad Agrigento: «Verrà il giorno in cui non ci chiederanno se siamo stati credenti, ma credibili». Può bastare per sottrarre gli scolari ai Mangiafuoco della mafia, della camorra, della ’ndrangheta che quotidianamente arruolano burattini promettendo loro una vita di soldi, avventure, lussi, fuoriserie? Forse no. Ma certo ci si deve almeno provare, anche coi libri giusti, a strappare tanti ragazzini dei quartieri a rischio a quel destino riassunto in poche parole, terribili, del magistrato Raffaele Cantone, uno di quelli più esposti nella lotta contro la camorra, davanti al cadavere di un giovanissimo morto in una sparatoria: «Che fosse autentico o contraffatto tutto quello che riuscivo a scorgere addosso a quel ragazzo morto era di marca. Qui vanno al macello, i piccoli yuppie della Camorra».
: Gian Antonio Stella
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