Mise le scarpe di vernice nera, slacciò l'orologio e lo posò sul tavolo. Gli ultimi minuti prima del concerto per lui erano massacranti, "in genere sei completamente solo, pensi a tutto quello che può andare storto, e non puoi più fumare, altrimenti rischi che ti tremino le mani".
Un'ultima occhiata allo specchio. "E' ora", gli comunicò la maschera. Gli augurai in bocca al lupo, ma non mi sentì; canticchiava il moderato della Sonata di Haydn e muoveva rapidamente le dita. Le porte della sala si aprirono, in lontananza partì l'applauso.
Sembra di essere alle solite, un'altra storia di genio e sregolatezza, di arte a prescindere e forse anche grazie agli eccessi di ogni tipo. E invece no, è davvero un'altra storia, quella che l'olandese Jan Brokken racconta in Nella casa del pianista (Iperborea). Non fosse altro che in questa storia l'autore c'è stato in mezzo per molti e molti anni, da quando a un concerto rimase folgorato dall'interpretazione degli studi di Chopin proposta da Youri Egorov, astro nascente del pianoforte di cui diventerà amico stretto.
E dunque, c'è questo talento, potente e fragile insieme. C'è questo artista che viveva molte vite che in apparenza non s'intonavano tra di loro. C'è la parabola di questo straordinario pianista esule dall'Unione Sovietica ed eterno straniero, di questo uomo che conquisterà i teatri e si perderà nei locali più equivoci, malato di solitudine e di nostalgia, fino alla fine che arriverà troppo presto.
Ma c'è anche molto altro, oltre a Youri Egorov. Il mondo della musica per esempio. Il lavoro e la fatica di un pianista - e in queste pagine sembra di entrare nella testa di un uomo che deve dare un senso alle note di uno spartito e deve avere cura di ciò che ha di più prezioso, le sue mani. E il lavoro e la fatica di un altro uomo - Jan Brokken, appunto - che con la sua scrittura deve restituire ciò che di vita si può restituire a chi non c'è più.