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Pasolini, l'omosessualità, la psicanalisi

Creato il 09 novembre 2015 da Letteratitudine

Pasolini, l'omosessualità, la psicanalisiLa nuova puntata de “Il sottosuolo” di Ferdinando Camon è dedicata a Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975) in occasione del quarantesimo anniversario della morte.

Abbiamo ricordato la ricorrenza nel'ambito di questo post.

(Massimo Maugeri)

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Pasolini, l'omosessualità, la psicanalisi

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di Ferdinando Camon

Pasolini è morto quarant’anni fa. Sono convinto che si può parlare con i morti. I morti non sono morti. «Silvia, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale…?» cominciava Leopardi: le chiede se si ricorda di quand’era viva, ma possono ricordare qualcosa i morti? e possono rispondere a una domanda? La risposta, per Leopardi, è “sì”. Per questo scrive quella poesia. Per questo è nata la poesia. La prima poesia fu nelle parole che la prima madre rivolse al figlio appena morto. La poesia è il dialogo fra il di qua e l’aldilà. Lorenz racconta di una scimmia a cui era morto il figlioletto appena nato, e lei non lo abbandonò, ma continuò a trascinarselo dietro per due giorni e due notti. Non conosciamo i suoni che la scimmia-madre pronunciava in quei giorni, ma se li avessimo, quelli sono poesia. Nel giorno dei morti i figli vanno a parlare con i padri. Anch’io. Anche con il padre letterario, che fu Pier Paolo Pasolini. Vado a Casarsa della Delizia, che è qui vicino a casa mia, e sto una ventina di minuti davanti alla “tomba coniugale”, che mette insieme Pier Paolo e sua madre. L’idea di metterli insieme fu di Alberto Moravia ed Enzo Siciliano. Idea giusta. La coppia era quella. Pier Paolo lo dice con chiarezza in una poesia bellissima, intitolata “A mia madre”, dice che il suo vero unico amore è la madre, ma la madre è sacra, lui non può toccarla, e per estensione non può toccare nessuna donna, per lui è un tabù. Pier Paolo, e questo è un dato che le sue biografie ignorano commettendo una grave colpa, andò in analisi da Cesare Musatti. Me lo raccontò Musatti stesso. Musatti da vecchio parlava troppo. Mi raccontò che Pasolini dopo 7-8 sedute non si presentò più. Perché era saltata fuori l’omosessualità, e Pier Paolo diceva: «Non ne parlerò, perché è natura». Musatti rispondeva: «Ne parlerà comunque, anche senza volerlo».
Musatti aveva un’idea dell’analisi come guerra civile: l’uomo che va in analisi è in guerra con se stesso, come uno Stato in cui scoppia una guerra civile e s’infesta di ribelli. Lo Stato non può dire: «Li combatterò a Milano, Genova e Torino, ma non a Venezia e Trieste», perché se dice così, tutti i guerriglieri si trasferiranno a Venezia e a Trieste, e quelle città, che lo Stato voleva preservare intatte, dovrà raderle al suolo. Così tu non puoi dire, in analisi: «Parlerò di tutto, ma non della mia omosessualità», perché tutti i tuoi sintomi si concentreranno sulla tua omosessualità, e non potrai parlare che di quella. Se vai in analisi e continui, vuol dire che senti un vantaggio nel finirla. Se la interrompi, senti un vantaggio nell’interromperla. Per te è meno doloroso interromperla, e continuare a patire la tua angoscia per tutta la vita, che non concentrare tutta l’angoscia della vita nei pochi anni dell’analisi, affrontarla e liquidarla o tenerla a bada. Pasolini scelse di non affrontarla ma tenersela, così com’era. È morto per questo. Che cosa angosciava Pier Paolo, nella sua omosessualità? Forse (e questo i giornali lo ignorano, ma è qui il vero problema) la ricerca di minorenni? Tutti gli amici lo rimproveravano per questo: «Lascia stare i minorenni». Ogni volta che si riparla di Pasolini, saltano sempre fuori (anche stavolta) nuovi sospetti (mai prove) su una morte diversa, e cioè il complotto fascista. Pasolini ha lasciato dei “figli”, scrittori che lui ha scoperto e lanciato. Lanciò Dario Bellezza scrivendo nella prefazione: «Ecco il più grande poeta della nuova generazione». Con simili parole tu fai grande uno sconosciuto. Lanciò il mio primo romanzo scrivendo una prefazione in cui citava (chiedo scusa) Dante, Boccaccio e Verga. La lessi dritto in piedi in uno stanzino della casa Garzanti mentre i dirigenti, seduti in cerchio, mi scrutavano. Mi vergognavo. Troppa generosità. È dunque mio padre. Ma non sento il bisogno di negare che sia morto nello scontro con un minorenne: significa negare la verità, non accettare che sia morto com’è morto. Non gli faccio questo oltraggio. La sua fu una “morte lunga”, e cominciò quando smise l’analisi. L’avesse continuata e terminata, avrebbe vissuto trent’anni di più. Glielo dico, quando vado a trovarlo. E so che lui capisce.

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© www.ferdinandocamon.it


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