“L’intellettuale sino in fondo è una condizione eroica, una testimonianza assoluta: il prezzo che paga è il presente, la storia, la comprensione del presente. La centralità di questo tema che è la forma del dramma irrisolto (in realtà dolorosamente risolto in partenza) è stupefacente fino all’ossessione. Dall’inizio alla fine, e nelle Ceneri in misura compiutamente articolata, questo interlocutore impossibile del movimento dice al movimento: io non posso venire con voi perché sono poeta. La poesia appartiene a un’altra civiltà. Quale che sia la forma del mio soffrire, e la metafora del mio rimpianto (rabbia, scandalo, scisma, abiura, ecc.), questo dramma è il dramma in cui la poesia si incarna. Io sono quel dramma. E il dramma è immutabile, come la sua testimonianza: perché la poesia è immutabile, è l’antitesi del movimento”. – A. Leone de Castris, L’esperienza di Pasolini tra «poesia» e «storia», in «Lavoro critico», nuova serie, n.4, 1986
Abel Ferrara è entrato nel dramma di Pasolini. Del dramma ha saputo rendere con estrema lucidità l’inconciliabile frattura che giace rassegnata e malinconica tra l’atto e la potenza ed ha colto in esso la problematicità della forma che non può essere mai davvero declinata e risolta nella materia, «Io sono una forma la cui conoscenza è illusione», scrive lo stesso Pasolini.
Il regista ha rinunciato a compitare una biografia ed è diventato spettatore silenzioso dei pensieri di un intellettuale dolente e di un uomo indecifrabile senza cercare di imporgli o di fargli assorbire la propria visione della realtà.
Abel Ferrara è vicino a Pasolini fino all’ultima scena con un movimento di macchina tagliente, con soggettive a volte impietose, ma specialmente con quel procedere per sovrapposizione ed incastro come mescendo il momento storicamente effettivo della vita dello scrittore a quello intellettuale della creazione: l’ultimo giorno di Pier Paolo scorre inesorabile. Dolce e feroce: Pasolini abbraccia la madre – una struggente Adriana Asti – che lo sveglia baciandolo, poi si lascia intervistare da Furio Colombo (Francesco Siciliano) – è proprio profetico quel «Siamo tutti in pericolo» che suggerisce come titolo all’articolo -, lavora a “Petrolio” .
Ferrara penetra e ricostruisce l’immagine che riempiva la mente di Pasolini mentre era intento sulla Lettera 22 a scrivere dei due protagonisti di “Petrolio”, di Carlo (Robetto Zibetti), assorbito dal vortice di insignificanza che insegue nei salotti della borghesia corrotta e spregiudicata cercando di annientarsi senza pietà di sé nella solitudine di quel “sesso che è potere”, e di Andrea (Andrea Fago) disincantato sopravvissuto ad un incidente aereo.
Terribilmente ostinato, Pasolini disegna e pensa e continuamente torna a costruire l’apoteosi della sua utopia, il film mitopoietico “Porno-teo-kolossal” di cui parla e che propone ad un giovane Ninetto Davoli (Riccardo Scamarcio) poco prima di andare incontro alla morte atroce.
«Lo voglio girare al più presto» ripete smanioso all’amico. Poi si avvia verso la notte della periferia e della spiaggia di Ostia.
Willem Dafoe (doppiato da Fabrizio Gifuni) è un Pasolini inquieto e sfuggente: l’attore dimostra una notevole sensibilità mimetica e non si limita ad interpretare la contraddittorietà di Pasolini – non ridimensionato né ricondotto o costretto alla figura di “personaggio” -, ma si lascia investire con intelligenza dal sentimento della sua realtà.
Dafoe riesce così a rendere, senza forzare toni e gesti, la lucidità di un uomo che ha saputo sfidare e denunciare il bigottismo e la retorica edulcorata di un sistema che si inabissava sulle proprie incapacità benedetto da una classe dirigente asservita ai propri interessi ed ha mostrato con estrema eleganza lo slancio dell’intellettuale dinamico, del poeta che, non solo ha compreso, ma sa anche come fare comprendere e pretende di volere esprimere la propria riflessione “attraverso” e “per” la salvezza dell’arte. Pasolini non rinuncia con aristocratico snobbismo a ritagliarsi uno spazio nel mondo, ma sa che è proprio quel mondo a non poter accettare la sua presa di posizione e sa anche che quel mondo lo ha già condannato e respinto perché la cruda verità è feroce e non si può resisterle.
Dafoe ha il volto scavato, le mani nervose, ma aggraziate, la fronte tesa e dolente di Pasolini nello sforzo di esprimere e superare razionalmente la violenza del momento storico in cui vive. Perché di piombo erano gli anni e gli ultimi giorni di Pasolini, ma di piombo è anche l’atmosfera del film che sottende l’angoscia di chi sa quanto al contrasto e alla violenza della violenza stessa non si possa resistere. Willem Dafoe è Pier Paolo Pasolini in quel suo stato di «spenta trepidazione», proprio come un «cipresso stancamente sconvolto».
Ed è un Pier Paolo Pasolini che comunica con lo spettatore senza mai rivolgergli lo sguardo, senza mai rivolgersi direttamente nemmeno al regista che lo segue coraggiosamente e pare anche con una certa riverenza. Senza intellettualismi, senza cadere in una nostalgica e grottesca imitazione Dafoe incarna l’intelligenza «mimetica» che riflette in un continuum lucidissimo sulla propria poetica, specialmente nelle scene in cui Ferrara ce lo mostra concentrato sulla stesura di Petrolio o intento a figurarsi nella mente le scene in sequenza di “Porno-teo-kolossal”, proprio perché – come spiegava Franco Fortini in “Le poesie italiane di questi anni” già nel 1960 – «Pasolini intende creare una serie di opere attraverso le quali, non nelle quali, egli riesce a dare delle concrete rappresentazioni poetiche».
Quando Ferrara ricostruisce i frammenti di “Porno-teo-kolossal” la figura di Epifanio, interpretato da un viscerale Ninetto Davoli, è terribilmente umana ed è assolutamente cruciale: Pasolini è un Platone moderno. Racconta di un viaggio alla ricerca di un Messia, ma si tratta di un viaggio che si perde tra le scale di un cielo oscuro e lontano dalla Terra. Un viaggio alla ricerca di un Paradiso-Iperuranio che in realtà non esiste. La fine stessa è solo un’astrazione, rassegnato e consapevole, Pasolini si affida al tempo e alla realtà: qualcosa succederà, prima o poi.
La forza di questo film è nel non avere cercato di rappresentare la morte di Pasolini né di presentare il suo pensiero rischiando di adeguarlo ad una lettura “comoda” e immediata: gli attori ed il regista costringono lo spettatore a non fermarsi solo sull’immagine che scatta nervosa, ma invitano a cercare nelle parole che Dafoe pronuncia con Pasolini – dietro ogni parola e dietro ogni silenzio, più che dietro lo sguardo malinconico celato dalle spesse lenti scure - la moltepicità irriducibile dell’intellettuale: la tensione del comprendere in cui Pasolini si struggeva viene trasferita nel ritmo serrato e incostante, nella fotografia di Stefano Falivene che tende ai toni scuri e che si illumina verso i toni caldi del giallo e del rosso solo quando mostra uomini e donne nel momento istintuale ed animalesco della ricerca del piacere o nella soddisfazione del bisogno fisiologico.
La positiva e straordinaria forza corrosiva del Cinema – e non si tratta di un paradosso – è evidente nel finale: Pasolini ci ha costretto a ridere segretamente del nostro moralismo. Adesso che giace riverso sulla sabbia, adesso che la dolce Graziella (Giada Colagrande), la madre (Adriana Asti), il cugino Nino Naldini (Valerio Mastrandrea), Laura Betti – una efficace Maria de Medeiros doppiata da Chiara Caselli – lo piangono, pare davvero sia tutto finito. Eppure Maria Callas intona l’emblematica cavatina dal Barbiere di Siviglia “Una voce poco fa”.
Poco fa era il 2 novembre 1975.
Written by Irene Gianeselli