Non era questo ciò che ci si attendeva da una pellicola su Pier Paolo Pasolini e non era questo che speravamo avesse in mente Abel Ferrara, che con un progetto simile aveva in mano l'occasione per rilanciarsi o seppellirsi. Ma lui lo sapeva, e anticipando tutti aveva messo già le mani avanti: identificandosi con la figura che mette in scena e proiettandosi in quelle parole che gli fa pronunciare quando parla del cinema e dei film. Non smetterò mai di fare cinema, neppure se restassi l'ultimo uomo sulla terra. E' un modo che uso per esprimere me stesso e non mi importa quello che pensi la gente. Se non facessi film mi suiciderei. Parola più, parola meno, sono le parole dette da Dafoe nella seconda intervista presente in "Pasolini", l'ultima, quella che va a sancire la chiusura di una storia che poi prosegue, ma di cui effettivamente rimane pochissimo e le parole di difesa dello stesso regista, scarico e irriconoscibile da come lo conoscevamo, ma intenzionato a continuare perché altrimenti sarebbe come morire.
Si rimane interdetti dunque di fronte ad un lavoro tanto incompleto quanto mediocre (i continui passaggi dall'inglese a un italiano, spesso ostentato, peggiorano solo le cose), che tuttavia non è nemmeno capace di farsi odiare completamente. Vuoi per il tentativo - fallito per altro - di Ferrara di provare a sognare come sarebbe potuto essere Porno-Teo-Kolossal (per il quale speriamo Pasolini avesse in mente altri interpreti), vuoi per la presenza di Dafoe che quando mette in fila quelle frasi giuste al momento giusto accende in noi pensieri tutt'altro che banali, che alla fine per questo "Pasolini" si prova più dispiacere che altro.
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