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Decido di dire qualcosa senza pretese su Pier Paolo Pasolini che 40 anni fa, nella notte fra il 1 e il 2 novembre, moriva a due passi da dove io vivo oggi, ad Ostia. Lo ricordo spesso per questa ragione. Perché quando mi capita di andare nel ponente di Ostia, generalmente di malavoglia per quello che è quel ponente, passo da quel luogo che continua ad essere degradato malgrado il giardinetto e la lapide dedicata al poeta là dove egli trovò la morte. Accompagno lì talvolta gli amici che vengono ad Ostia. Anche se non mi è chiaro il perché. Non credo che Pasolini sappia delle mie visite, voglio dire. Però accetto il costume che vuole che si onorino i morti. Per noi vivi. In spirito foscoliano. E Foscolo è un poeta che amo. Dico poi semplicemente che Una vita violenta (1958) è un libro che mi ha segnato. Mi è più chiaro adesso che allora, quando lo lessi quindicenne. Infatti ne ricordo ancora a memoria la conclusione, ciò che mi capita solo per Foscolo, Shakespeare e qualcosa di qualcuno meno noto. Ricordo a memoria così il finale con Tommasino, il proletario, piccolo delinquente, forse redento ma non perdonato dalla Tbc, che, sentendo arrivare la morte, chiama dal suo letto la madre affaccendata in cucina ed evidentemente disturbata: - A ma'...- - Che voi Tommasì?- - A ma, che ho da volè - E lascia questo mondo. Dovrei controllare se 57 anni dopo ricordo davvero bene.