SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA
di Carlo Camboni
Quando Salò venne proiettato per la prima volta al Festival di Parigi il 22 novembre 1975 Pasolini era morto da tre settimane. Nel periodo in cui avvenne l’omicidio l’autore elaborava altri progetti letterari e cinematografici, era disperatamente vitale e
attivo mentre di definitivo, mortale, c’è l’atto d’accusa che si proietta, un’opera enigmatica e profetica che ha svelato cinematograficamente la corruzione del potere e il disfacimento della cultura, il loro evolvere in forme diverse, invasive e infestanti attraverso seduzioni e manipolazioni scelte per brutalizzare gli individui quando questi diventano massa indistinta e quindi mercificabile. In questo senso Salò è un capolavoro di tecnica cinematografica e freddezza letteraria che osa sfidare il tempo con nonchalance: prima soccombe, poi resiste ad anatemi e richieste di roghi e infine risorge in tutta la sua sorprendente magnificenza. Per il poeta Pasolini il discorso filmico è la vertigine che gli consente di creare, assolvere la funzione estetica. Il cinema, infatti, non necessita della lingua per rivelare, essendo prelinguistico, dunque più libero e rivoluzionario rispetto alla letteratura; dispone inoltre di un formidabile dispositivo tecnico per rivelare visioni impossibili, la macchina da presa, usata da Pasolini per catturare l’essenza di ciò che cercava ossessivamente: la veridicità documentaria, qualcosa di primitivo e perduto, la mancanza di mediazione tra realtà e rappresentazione, già esperita sin dal film d’esordio, Accattone, pellicola che evidenziava le miserie della realtà suburbana italiana, prostitute e redenzioni mancate, l’eterna periferia umana il cui vociare è coperto dal silenzio dei meccanismi di controllo mediatico i cui metodi sono basati sulla logica del dominio. E siccome per Pasolini il cinema è naturalmente poetico l’ossessione diventa la tecnica, ovvero come rappresentare realtà, sogni e incubi adottando soluzioni cinematografiche originali, uno stile unico… cioè il “cinema di poesia”, che non è il cinema della seduzione caro alla società dei consumi ma la ricerca dell’antispettacolarità, resa e accentuata da un uso ipertrofico di soluzioni visive estreme, inquadrature volte a sconcertare lo spettatore e quindi scardinare, rompere gli argini rassicuranti del cinema popolare imposto dall’ordine costituito o proposto da registi specialisti in autocensura recensiti da giornalisti e scrittori a loro volta censori a corto di idee in nome e per conto del referente politico di turno.La trama, in breve – Quattro notabili della Repubblica Sociale Italiana che rappresentano il potere giudiziario, economico, ecclesiastico e politico (o di casta) scelgono accuratamente tra le giovani vittime di rastrellamenti quelli che ritengono più adatti, in base a requisiti fisici e attributi sessuali, per soddisfare le loro perversioni. I quattro sottoscrivono un patto per instaurare una dittatura sessuale fondata sul sadismo, gli atti saranno sempre imposti. I giovani, appartenenti a famiglie di partigiani e antifascisti, vengono trasferiti in una villa isolata in cui si svolgeranno i fatti, per 120 giorni e 120 notti. Là, quattro anziane megere, padrone del tempo e dello spazio, in una spoglia e austera sala delle orge, cercheranno di provocare sessualmente i presenti facendo appello alla loro abilità di raccontatrici; eserciteranno il potere della parola con sequenze da cabaret dell’assurdo, evocheranno storie più o meno oscene ricorrendo ad allusioni sessuali sempre più esplicite: l’erotismo è assente, la disobbedienza severamente punita, vietate le pratiche religiose. La struttura dantesca del film si articola in un antinferno, un girone delle manie, uno della merda, uno del sangue. Il menu comprende quadri futuristi, cantos di Ezra Pound, capezzoli bruciati con tizzoni ardenti, torture e perversioni in crescendo, tanto per gradire. Tutto avviene oltre le coordinate spazio temporali conosciute, ma nel frattempo, quando l’innocenza sembra perduta per sempre, qualcuno cambia musica alla radio e sulle note di Son tanto triste, un giovane che danza con un compagno, sussurrerà il nome di un fiore, forse un fidanzato o una giovane donna, Margherita, barlume di una innocente speranza (ma la dissolvenza è al nero).
Da Sade a Pasolini – L’allegoria dell’Inferno dantesco presente ne Le 120 giornate di Sodoma sadiane incontra l’idea pasoliniana di scegliere l’inferno della Repubblica nazifascista di Salò come paradigma della mancanza di morale o comunque di una morale codificabile, comprensibile, il che impone allo spettatore, sconcertato dalla rappresentazione, la croce della sottomissione e la delizia della passività innanzi a immagini filmiche in cui la normalizzazione del Male e la soggezione delle vittime rispetto al carnefice è restituita da una macchina da presa che diventa eroina del film, un despota assoluto il cui sguardo rivelatore è crudele, ragionato, distante ma capace di imporre la sua spietata visione del testo sadiano con lo stesso fulgore raggelante evocato dalle parole del divin marchese. A tal proposito si pensi alla bellissima sequenza dei rastrellamenti (Antinferno): in pochi secondi si racconta un ventennio, poche battute, inquadrature brevissime, la macchina è estremamente mobile, il male agisce sul popolo che non reagisce, è passivo; la cieca obbedienza all’Autorità è rappresentata dagli abitanti del paese (controcampo in campo lungo) che assistono muti e inerti alla barbarie delle deportazioni. Ogni inquadratura una pennellata di rabbia in un quadro dove il paesaggio è intravisto, eppure c’è già un avvertimento sinistro: la Storia sinora rappresentata sta per finire drammaticamente, forse per sempre, si va verso l’abisso, oltre la Storia, dove, dalle sequenze successive, viene messa in scena la brutale e premeditata manipolazione delle menti e dei corpi all’interno del non luogo in cui si consuma l’orgia del testo sadiano. Lo stupro psicofisico dei cittadini avviene quindi in un tempo che trascende la Storia il che significa che avviene da sempre, non è mai finito e mai finirà (la metastoria).
I 4 Signori di Salò sono privi di coscienza, ogni abuso è alimentato dal loro potere, quindi illimitato, così come per Sade la misura del potere è quella del vizio, quindi incommensurabile… e nulla alimenta il potere come non conoscerne i confini avendo la sicurezza dell’impunità. Infatti, mentre i quattro notabili sono follemente anarchici e sfacciatamente dissoluti, il popolo è sottomesso, educato ai buoni sentimenti e soprattutto all’accondiscendenza e al rifiuto del peccato e del vizio e quindi, per formazione, incapace di reagire. Evidente il richiamo del Pasolini saggista alla polemica contro chi il potere lo subisce da sempre rimanendo privo di senso critico e incapace di ribellarsi ma anche contro i giovani dei movimenti studenteschi portatori di ideologie à la page e rivoluzioni preconfezionate ma indottrinati, omologati e risucchiati dalle macchinazioni degli organi di controllo capaci di tollerare le loro finte barricate purché in nessun modo venga turbato lo status quo e nulla cambi. Il tema della cultura compromessa coi regimi dittatoriali emerge in ogni sequenza tra allegorie e citazioni letterarie, filosofiche e musicali, una Tirannide della perduta libertà, amplificazione drammatica dell’impotenza delle vittime. Ma che resta della libertà perduta se non la si riconquista ed esercita minuto per minuto? Il film risponde ma l’approccio è disperante: ci sono due personaggi alla ricerca di una Storia che li rappresenti; uno è la Pianista semimuta che nel gran finale si getta dalla finestra compiendo un atto squisitamente politico che le permette di uscire dallo spazio della villa e quindi dalla storia; l’altro é il comunista Ezio, che per un breve istante, con gesto politico che trascende la posa, rivendica nell’unico modo che conosce la sua individualità e l’orgoglio di non aver perso il suo senso di appartenenza al genere umano persino nell’inferno nazifascista di Salò; ciò che provoca nei 4 satrapi disappunto, esitazione e quindi vendetta spietata. La libertà ha il prezzo della vita, richiede dedizione e sacrificio, sempre.
Il sadismo – Il sadismo dei quattro libertini è beffardamente dipinto sui loro volti da clown che si specchiano negli sguardi impauriti delle vittime traendone ulteriore godimento in un’orgia di richiami erotici in cui i ruoli sessuali, definiti e non discutibili, non obbediscono a nessuna legge del desiderio ma a capricci occasionali, giochi sadici e antierotici che generano rifiuto perché imposti da chi solitamente impone la morale e le leggi, un sovvertimento che genera disagio intellettuale. Insomma: il potere altera le coscienze “istituendo dei nuovi valori alienanti e falsi, i valori del consumo, un genocidio delle culture viventi, reali, precedenti”: l’essenza del film. L’istanza analizzata da Pasolini è la scellerata alleanza tra i diversi organi del potere, spartito e condiviso sulla base di favori sessuali, patti di sangue, incesti e matrimoni in una grottesca intesa politica e subculturale avallata da regolamenti decisi in segrete stanze; un’alleanza venefica che è prerogativa del potere tout court: da qui la necessità di sperimentare, filmandola, la disgregazione delle menti degli individui che diventano massa indistinta, corpi senza volto nel totale annichilimento e “annullamento della personalità”. …e non è un caso che la villa, lo spazio diegetico, sia di fatto assimilabile a una caserma, una chiesa, una scuola o altri istituti regno di ordine, coercizione, indottrinamento, disciplina e conformismo; una scuola iperrealistica dove i gerarchi sono presidi, le megere insegnanti dispensatrici di racconti e gli alunni la massa indistinta da educare secondo rigide regole che contemplano persino la routine dei bisogni intellettuali, erotici e fisici, non escluso il momento preciso in cui defecare. La morale della favola horror, ancora una volta, è che la libertà si conquista e si pratica ogni giorno pena il non averla mai avuta né afferrata. Un incitamento alla consapevolezza, straordinariamente attuale.
Carlo Camboni
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“Noli Me Tangere” omaggio a Pier Paolo Pasolini.
by Iano 2015
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 24 – Settembre 2015.
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