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Pasquale Vitagliano: Oltre il muro

Creato il 22 agosto 2013 da Cultura Salentina

Pasquale Vitagliano: Oltre il muro

22 agosto 2013 di Augusto Benemeglio

Pasquale Vitagliano

Nichi Vendola

“La poesia non è fatta per nessuno,/non per altri e nemmeno per chi la scrive…/ straccia i tuoi fogli, buttali in una fogna”, disse Montale. Ma Nichi Vendola, l’attuale Governatore della Puglia, terlizzese, allora nelle vesti di critico letterario, incoraggiò il giovane Pasquale Vitagliano con quella “spigolosa e amara scrittura, quella sua metrica spezzata e circolare, sfottente, ansiogena, con dissonanze rabbiose che intingono sovente dal registro dell’apologo politico; quei ritmi disossati e desertici, con qualche grazia neo-classica; quel lessico registrato della routine delle ugualità sconce, delle omologazioni carnivore del Consumo Globale; insomma un controcanto solitario fatto di cantilene ed echi di un’epopea di naufraghi e manichini”. Parliamo di più di vent’anni fa, ma oggi “Oltre il muro” della Murgia le cose sono cambiate in peggio : “Si sono lanciati i reggiseni bianchi,/Ma si è ritirato il mare;/Ci hanno tolto la frontiera./Ed è rimasta una piaga /O una piega, /Una smagliatura//…Abbiamo chiamato/Villaggio Globale/quello che è stato solo/Un recinto:/ A chi una tanica d’acqua;/ a chi un paio di scarpe”. Strana commistione in questi versi tratti da “Apocalypse Now” tra un Tommaso Fiore, – cafoni sempre all’inferno, rocce nere e popolo di formiche ,- e uno Rocco Scotellaro, – fiume rosso alba di sangue, ironia amara, “sogno senza fine né tregua a nulla”. Cos’è oggi L’Europa vista dalla Murgia, Governatore Vendola? “ E’ la tristezza/Dell’Avvento;/La quiete verde/che inumidisce/l’essere./E’ il vicolo/che si spopola;/E’ anche la fabbrica/Che si svuota.”

 

Volevamo essere statue

 Ad un certo punto Vitagliano ha smesso di fare il poeta (“Il poeta è un fingitore. | Finge così completamente | che arriva a fingere che è dolore | il dolore che davvero sente”) e ha scritto un romanzo, “Volevamo essere statue”, un genere – dice Abele Longo – che si inscrive nella frammentarietà del postmoderno degli anni ’90 e che viene spesso definito in termini di rifiuto esistenziale della maturità. Roba da caduta del Muro di Berlino, triangolo alla Jules et Jim, una sorta di canto del cigno del Novecento, sulla “perdita dell’innocenza, privata e collettiva”, un viaggio (“Strappare, prendere, dare, gemere, morire”) mai veramente iniziato di chi voleva cambiare il mondo, di chi voleva essere “Statua interiore”, cattedrale umana, Basilica alla don Tonino Bello. In certe stazioni non partono solo treni, ma svoltano destini, s’incrociano rivoluzioni, si fa veramente la storia. Ma in questo libro non accade nulla di tutto ciò, i personaggi “passo dopo passo non vanno in nessun posto” rimangono incompiuti, e tutte le idee e altre possibili storie rimangono tali come la cattedrale di Venosa voluta da Federico II. In fondo è un finale che Pasquale aveva preconizzato vent’anni prima in pochi versi (potenza dell’energia, della sintesi e della gloria della poesia?!): ”L’unica cosa vera è il nulla/Tutto il resto è una sporca menzogna; vivere è credere in quella che costa meno./Ma questo prova a dirlo a una madre del deserto/ Ogni luce si spegne”.

 

 Cambiare la storia

Io sono nato a Lecce, – dice – ma l’ho vista per la prima volta a vent’anni. Terlizzi è il segno della mia esistenza e della mia ricerca poetica. E Terlizzi non è fatta di disperazione domestica, non c’è la musica dell’indifferenza, vene marce e cuore incerottati, è una città sana e laboriosa con cuore tempo aria fuoco e sabbia che deve ritrovare la sua antica civiltà basata sulla solidarietà umana e sulla legalità. Qui, in un’epoca della distruzione dell’esperienza come la nostra, è un vecchio andare, vecchio guardare, vecchie soste. Io spero tuttavia nei giovani che avvertono l’urgenza di cambiare la storia, dare uno scossone ai” quaquaraquà” dalla barba bianca e “dalla divina apatia, dalla divina atambia”, che sono fuori del tempo, fuori dello spazio, fuori dalla realtà. Volontà, determinazione e coraggio. Ritrovare il coraggio di osare fino all’estremo sacrificio, come insegnano don Pappagallo e il professor Gesmundo. In questo contesto, io sono convinto che la poesia, nella sua ordinaria mostruosità, sia l’unica che possa in qualche modo salvarci, perché traccia una scia tra la realtà invissuta e infiniti mondi altrove che da qualche parte esistono. E’ come una cometa in una notte terribile e buia. Cosa c’è oltre il muro? “Eppure una terra deve esserci/se esistono paesi a cui qualcuno/dette un nome così sacro: DELLA DELIZIA”.

 

Pietre

E tuttavia la poesia rimane inascoltata, estranea, isolata, solitaria, irreale, disincarnata, soprattutto da chi fa politica e dalle Istituzioni che fingono un interessamento di facciata. Per cui l’artista, ogni artista, è destinato al fallimento “come nessun altro osa fallire “, diceva Beckett ormai più di mezzo secolo fa. (E’ certo solo che non riesco a capire/e mi sento castrato/Non so chi chiamare,/ ammesso che qualcuno voglia ascoltare./ Perciò vomito queste cazzate// Ogni tanto balenano nella mia mente /facili compiacimenti/ e mi scopro più idiota /e disperato di prima) Ecco che qui ritroviamo il giovane Vitagliano, nella sua severa sincera spietatezza, su quello che sarà il suo destino di poeta, “morde – scrisse Vendola – nella polpa il male di vivere, col candore di chi ha ancora una risorsa, una risorsa di parole che parlino e una scorta di domande che domandino, che domandino un senso e nient’altro…Qui non c’è consolazione possibile nei miti della tradizione – “lascia il passato ai nostalgici” – né nei riti neo-futuristici – lascia “il futuro ai veggenti”. Eppure nella sua disillusa e petrosa punteggiatura, nel respiro affannoso e asmatico insonne “ infinito è anche un solo momento” e nella sua memoria dell’infanzia.

La poesia è un clic perenne che fotografa tutto, i cortili della memoria e le macerie post-moderne, cumuli di immondizie, reperti industriali, scaglie, detriti di scavo, cattedrali di volgarità come i megastore, microfisica del quotidiano e rimbalzo cosmico, ma è soprattutto “stupore quando s’incarna è un lampo che ti abbaglia /e poi si spenge”, dove anche le “statue “ esposte al vento marino “hanno il biancore e la porosità di un blocco di sale che si sgretola; altre, come i leoni di Delo, hanno cessato di essere effigi animali per divenire fossili imbiancati, ossa al sole in riva al mare”, che non sono più ossi di seppia montaliani, ma pietre: “Avevo idee che mi portavo /in tasca come pietre/sotto la pressa dei brogli/ tufo ne è rimasto in mano//…Il sole muore d’estate,/mentre il mondo sbianca;/si sciolgono gli orli della pelle,/la città è vuota. Siamo rimasti soli./ Il mio palmo aperto è il seno della terra.”

 

 Il Mito

E tuttavia rimane il mito della scrittura, l’utopia. Un sentiero difficile e doloroso da percorrere, ma che Pasquale ha voluto intraprendere con una certa determinazione. E’ un requiem senza tenebre, dove il cuore si fa cenere :“Cos’è L’Europa/Dalla Murgia?/ E’ la tristezza Dell’Avvento//E’ il vicolo/che si spopola; /E’ anche la Fabbrica/Che si svuota//..Non si vede ancora/L’Europa./Dalla Murgia si sono visti/Gli spari in Jugoslavia/ Dalla Murgia /Si vede/La terra/ Delle aquile uccise”. E’ come travolto da un’insolita energia e da una voglia prepotente di raccontare, di dire tutto, di se, di quanto ha vissuto, di quanto ha compreso nella vita, e di tutto ciò che non sa e non hai mai capito veramente. Sono momenti irripetibili. Sembra che qualcuno li abbia progettati per lui e lui stesso sia un progetto di una cosa più vasta e misteriosa. Si mette al computer e crede di voler scrivere in un certo modo, mettere là dentro le emozioni più belle, l’amore, la nostalgia, la passione, le idee più nobili, la libertà, la giustizia, il coraggio, la dignità, valori che non conoscono barriere di lingua razza costume o religione, sente l’ anima “come una misteriosa orchestra”. Invece no. Alla fine scrivi e basta. Scrivi il peggio di fronte a te fino a che faccia ridere, o piangere. Scrivi e ti lasci scrivere, dici e ti lasci dire. “Vorrei per un solo momento /spogliarmi della vita/ Vorrei dimenticare /le sue eterne, indifferenti presenze / e tutti i miei miti di essa// Li ho visti quei volti/consumati dalla fame/ Li ho visti quegli occhi/ trovare ancora la forza/per gridarmi la loro rabbia/ Li ho visti quei corpi/vomitati dal mondo…/ E allora sono fuggito/ e ho odiato questa terra incolore;/ho odiato quel cielo/sprezzantemente sereno./ E ho pianto, ho pianto/ Ma le mie lacrime non bagnavano la sabbia”

Nessuna retorica, ma solo pietà, carezze di pietà, pudore, sillaba e frase spezzata ,delirio circolare, stele votiva sospesa tra cielo e terra. La tua storia, amico mio, è la storia del tuo paese, destino mascherato di libertà, stella errante, senz’orbita, gioco che tutti giochiamo senza conoscere, gioco senza regole, e tu giri su te stesso e trovi sempre le stesse cose. “Tutto sommato a conti fatti un quarto di millanta quarti d’ora senza contare i tempi morti.”

 

Le cose soffrono

Pasquale scrive davvero per se stesso, seguendo le traiettorie di una memoria aspra, autocritica, con un’idea fisica della poesia, per lui le cose soffrono e ciò ricorda un po’ un Betocchi laico ( “star dentro le cose coi sentimenti accesi”), ma anche un Giovanni Giudici coll’idea ingenua di una poesia civile, etica ,sociale da grido caduta, confuso vociare e senso di colpa, e poi c’è il richiamo al Beckett crocifisso in cui si annienta la speranza dell’uomo ( non ci sono risposte finali che sia possibile ottenere dalla teologia o dalla metafisica). “Su una collina fu uccisa//la speranza fu immolata all’uomo e a dio/Come un pericoloso criminale/ essa fu crocifissa impietosamente/E tutto intorno tacque. Eccolo aggrappato ai contrappunti più raffinati e chiari d una sua sintassi interna, quasi a modulare una preghiera bianca, come un bassorilievo antico. La poesia – diceva Montale – viene da un sottofondo che gli uomini non conoscono. Le idee religiose, sociali, politiche,, attraverso le forme, subiscono una decantazione: quando escono non sono più idee, sono combustibile della poesia. “Hai voglia tu a sperare che / domani la storia potrà essere riscritta. / Tutto quello che hai detto, e fatto / si riverserà dentro senza farsi domande”.

“All’origine dei miei versi –disse Caproni – c’è la giovinezza e il gusto quasi fisico della vita, ombreggiato da un vivo senso della labilità delle cose, della loro fuggevolezza” Le cose?, replica Pessoa: “Mi agganciano a tutti i treni./Mi issano in tutti i moli./Giro dentro eliche di tutte le navi. Avanti! Su, oh! Avanti! …Ah, poter essere io tutta la gente e ogni luogo!”.Il poeta spesso lo trovi disteso fra i fili d’erba e lo calpesti senza neppure accorgertene, ma anche quando è in casa è come se fosse “altrove”, nelle geometrie dell’insignificanza, sotto il peso dell’arcata che appare sempre più carica di nulla. Egli avverte il requiem delle cose, dei cibi, una discesa pianissimo verso il nulla : Questa casa non ha odore,/non dico il sugo, la frittura,/il calore, che sarebbe kitch;/dico che non si sentono passi/ dietro i tavoli, sulle tovaglie,/sopra i divani, fuori delle stanze.

Le cose soffrono, le une con le altre, e con se stesse sole poiché sono un voler oltre, essere sempre più di quanto sono, le cose sono i nostri odori, i nostri pensieri, le nostre carezze, le rare gioie. Essere tempo è la condanna, la storia a noi è punizione. “Anch’io un tempo sono stato/sensibile alle foglie,/ le avrei volute studiare, e catalogarne i nomi/ per forma, margine e nervatura./Ma oggi le foglie/ non hanno più nome/ perché con gli stessi nomi/ chiamiamo cose diverse,/ le soglie, le voglie, le spoglie./Anch’io qui non parlo di foglie,/ma di idee morte e di vite passate,/di cose che volevano cambiare nome/ perché erano morte,/ma che alla fine senza nome sono rimaste.

 

 Oltre il muro

Ciascuno di noi scriba potrebbe dire: ho rinnegato tutti gli dei dinanzi ad una scrivania da mettere in ordine. Per chi scrivi? non hai niente da dire/più la penso la vita e più mi pare senza senso, di più questa calamita che mi tira a scrivere per parermi vivo.

“Nel quadro dell’invisibile/cerco… un destino più leggero”, dice Vitagliano

 Senso e memoria, così intesi, costituiscono le due rive entro le quali si distende e si articola tutto il suo percorso poetico :naufragio e preghiere a picco, la parola che si frantuma a colpi di tamburo. La poesia in realtà è già morta e sotterrata da tempo, è una pianta estinta delle nostre pene, ha l’età delle nostre lacrime ormai pietrificate, l’uomo è dato in pasto alla banalità più vieta del terrore e dell’orrore quotidiano, della assoluta mancanza di ogni legalità, di ogni regola, l’uomo è dato in pasto all’oblio della propria civiltà, ai coltelli che stanno oltre il muro. Sul muro l’ombra del fuoco, oltre il muro il buio tetro, assoluto. Quasi una di quelle sinfonie beckettiane che ti danno il senso del tuo fallimento, della tua sconfitta, della tua condanna di scriba.

 

 E’ fatto giorno

Scrivere, gli dice un amico, è una malattia. E lui ,inopinatamente, risponde che “è la nostra salvezza”, una luce alla fine di un tunnel, un mistero, l’unico per cui riesco a provare un reale slancio di fede. “Una vita, è vita, … è Vita”, calice di vocali e consonanti incendiate. Poesia significa libertà, ma anche disobbedienza di fronte a ogni forma di sopraffazione o di annullamento della persona; di fronte a ogni forma di irreggimentazione o, peggio, di massificazione. Poesia è anche disperazione, buio. Allora anche quando è Notte, è notte, è notte,/ pietra contro pietra,/ foglio su foglio,/mattone dopo mattone,/ ho spolpato la mia colpa/ di essere – come dici tu – perfettamente senza costrutto;/un talento inutile/riverso sul letto come un addio scordato,/ secreto da una sagoma di carta/ che esecra un duttile congedo/ che chiama morte la più infantile/ posa della vita, siero di sangue,/ succo d’anima e spiga di mistero.// Sa di fame il morso delle mie parole./ I suoi vocaboli sono marchiati a fuoco, dentro ci si può rispecchiare, si rivede noi stessi. Il cielo? E’ inchiodato di stelle” “Il verso, -scrive fm – allora, non risarcisce e non consola: la sua sola funzione è quella di riplasmare forma e vita e di affidarle alla corrente dei giorni – con la consapevolezza, intatta, dell’arte antica di cui sono il doloroso parto: la capacità e la forza di progettare e costruire il futuro”.

Ma come ricostruire il futuro se in questi ultimi ventitrè anni, Pasquale non ha fatto altro che ri-scrivere “Oltre il muro”, in quel giardino incerto che è la memoria, nella congiura delle immagini contro le sue palpebre chiuse, nel delirio delle simmetrie, nei sentieri divaganti, nell’eclisse e nella nebbia, quando ogni forma sembrava svanire?. Non ha fatto altro che ri-scrivere su quel muro il lutto delle sue imprese fallite, morte e sepolte, quelle sue poesie giovanili che “erano un tirocinio dell’Avvento” che non si è mai realizzato. “Non potrei essere il /poeta della rivoluzione./ Vorrei essere /un sasso gettato nell’oceano”. “Come pietra viva che cerca altri fondali “, annota Vendola. Ma forse ,oltre quel muro oltraggiato, pietra disonorata, nome coperto di sputi, persiste la forza e la passione di una brace pietosa, onde di umide sillabe e il presentimento di un linguaggio che possa narrare non solo un fiume di storie di sangue, ma un nuovo giorno. Forse ha scorto oltre il buio di quel muro l’utopia di un’alba nuova: una città nuova, che si apra a un nuovo destino, a una nuova storia, la sua storia, il suo destino: chissà, forse domani /uno squillo mi desterà/e mi farà saltare di gioia,/come un bambino”. E’ fatto giorno anche per noi.

Roma, 11 agosto 2013    Augusto Benemeglio


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