Passioni. Dalla Storia infinita a Kurt Browning

Creato il 14 agosto 2013 da Martinaframmartino

Michael Ende, La storia infinita

Le passioni umane sono una cosa molto misteriosa e per i bambini le cose non vanno diversamente che per i grandi. Coloro che ne vengono colpiti non le sanno spiegare, e coloro che non hanno mai provato nulla di simile non le possono comprendere. Ci sono persone che mettono in gioco la loro esistenza per raggiungere la vetta di una montagna. A nessuno, neppure a se stessi, potrebbero realmente spiegare perché lo fanno. Altri si rovinano per conquistare il cuore di una persona che non ne vuole sapere di loro. E altri ancora vanno in rovina perché non sanno resistere ai piaceri della gola, o a quelli della bottiglia. Alcuni buttano tutti i loro beni nel gioco, oppure sacrificano ogni cosa per un’idea fissa, che mai potrà diventare realtà. Altri credono di poter essere felici soltanto in un luogo diverso da quello dove si trovano e così passano la vita girando il mondo. E altri ancora non trovano pace fino a quando non hanno ottenuto il potere. Insomma, ci sono tante e diverse passioni, quante e diverse sono le persone.

Per Bastiano Baldassarre Bucci erano i libri.

Chi non ha mai passato interi pomeriggi con le orecchie in fiamme e i capelli ritti in testa chino su un libro, dimenticando tutto il resto del mondo intorno a sé, senza più accorgersi di aver fame o freddo;

chi non ha mai letto sotto le coperte, al debole bagliore di una minuscola lampadina tascabile, perché altrimenti il papà o la mamma o qualche altra persona si sarebbero preoccupati di spegnere il lume per la buona ragione ch’era ora di dormire, dal momento che l’indomani mattina bisognava alzarsi presto;

chi non ha mai versato, apertamente o in segreto, amare lacrime perché una storia meravigliosa era finita ed era venuto il momento di dire addio a tanti personaggi con i quali si erano vissute tante straordinarie avventure, a creature che si era imparato ad amare e ammirare, per le quali si era temuto e sperato e senza le quali d’improvviso la vita pareva così vuota e priva d’interesse; chi non conosce tutto questo per sua personale esperienza, costui molto probabilmente non potrà comprendere ciò che fece allora Bastiano.

Fissava il titolo del libro e si sentiva percorrere da vampate di caldo e di freddo. Questo, ecco, proprio questo era ciò che lui aveva sognato tanto spesso e che aveva sempre desiderato da quando era caduto in preda alla sua passione: una storia che non dovesse mai avere fine. Il libro di tutti i libri.

Questo è un articolo molto personale, a tratti quasi una serie di confidenze. Se vi state chiedendo perché dovreste leggere un testo così allora avete già la vostra risposta: non leggetelo. Non c’è niente e nessuno che vi obbliga a farlo, anche se io sento il bisogno di scrivere. Ci sono cose che si fanno con uno scopo e cose che si fanno perché sgorgano da noi. Io ho bisogno di fermarmi un attimo, guarire dalla febbre di questi giorni e focalizzare di nuovo le mie energie su qualcosa di diverso. Anche su un testo come questo, perché non c’è un solo modo giusto per scrivere o un solo argomento su cui farlo. L’ho scritto all’inizio, e da qualche parte l’ho ripetuto: qui parlo di quello che voglio. A volte sono professionale, a volte mi limito a fornire dati che ho trovato altrove, a volte approfondisco un argomento che interessa a me, non necessariamente che interessa a voi… e a volte posso scrivere qualcosa senza capo né coda ma per me fondamentale, come il lungo testo che trovate qui sotto.

 

Anche se non lo avessi scritto nel titolo, penso che molti di voi avrebbero riconosciuto nella lunga citazione iniziale uno dei passaggi iniziali della Storia infinita di Michael Ende. Quando penso a una passione che brucia profondamente sono le sue parole quelle che mi vengono in mente, anche se sono parecchi anni che non rileggo La storia infinita. Ma certe storie una volta che entrano a far parte di noi non possono più uscire.

Io conosco bene la passione della lettura da molti anni. Ho imparato a leggere prima dei cinque anni. Ho un fratello un anno e mezzo più grande di me, e quando mia mamma gli ha insegnato a leggere e scrivere, prima che lui iniziasse la prima elementare, a me non sembrava giusto che lui potesse fare questa cosa meravigliosa e io no. Ovviamente ho rotto le scatole a mia mamma fino a quando lei non ha ceduto e non ha insegnato anche a me. Da quel momento il regalo che qualcuno potesse farmi è sempre stato un libro. C’è da stupirsi che molti anni più tardi io sia finita a lavorare in libreria? Ho mandato il mio curriculum a tutte le librerie di Milano, alle più grandi anche più di una volta, ma mai uno a un negozio di abbigliamento o scarpe o articoli per la casa. Io non volevo lavorare in un negozio, volevo lavorare in una libreria. Al quarto colloquio sono stata assunta. Suppongo mi abbiano presa per sfinimento, sapendo che se non lo avessero fatto io avrei continuato a rompere le scatole. Quando mi ci metto so davvero essere testarda.

Effemme 4

Da bambina leggevo tantissimo. Il primo autore che mi è entrato nel cuore è stato Gianni Rodari, anche se a rileggere ora la gran parte delle sue storie mi chiedo cosa ci trovassi. Però le mie bimbe lo adorano, quindi sono solo io a non avere più l’età adatta. Poi c’è stato Emilio Salgari con le sue storie d’avventura. Jolanda, la figlia del Corsaro Nero è stata forse la mia prima vera eroina. Ho riletto il romanzo alcuni anni fa per preparare un articolo per Effemme, e inevitabilmente ne sono rimasta delusa. I nostri ricordi donano sempre un’immagine sfasata della realtà, spesso più bella. I miei gusti di lettura sono molto cambiati da allora e non posso più ritrovare quella bambina che ha preso in prestito per ben due volte il libro in biblioteca, mentendo pure alla mamma quando lei mi ha chiesto se non lo avessi già letto. Ho risposto di no, e sapevo che era una bugia, perché non ero in grado di giustificare il mio desiderio di rileggere una storia che già conoscevo. Ora vi rimando a un pezzo su Guy Gavriel Kay e le riletture che ho pubblicato qualche tempo fa: http://librolandia.wordpress.com/2013/07/02/guy-gavriel-kay-e-le-riletture/. Non mi piace mentire. Lo faccio molto raramente, e solo se ritengo di avere davvero un ottimo motivo per farlo. Lo so, tutti ci diciamo così, tutti ci troviamo giustificazioni per il nostro operato. George R.R. Martin ha affermato che quando descrive le cose da un punto di vista vuole far vedere come, nella sua mente, quel personaggio sia convinto di comportarsi nel modo migliore, a volte nell’unico modo possibile. Dal nostro punto di vista il mondo gira intorno a noi, e non potrebbe essere diversamente. Per questo se anche facciamo qualcosa che non è proprio corretto, se anche diamo del vino corretto a nostro cugino in modo che lui lo faccia bere a nostro marito durante una battuta di caccia al cinghiale, non lo facciamo perché siamo cattive ma solo per il bene dei nostri figli.

Lady Oscar

Io ricordo quella bugia anche se sono trascorsi circa 35 da quando l’ho detta. La ricordo proprio perché non ne ho mai dette tante e perché ricordo la febbre della lettura, anche se con Jolanda non la posso più ricreare. Però per saper quanto la reputo importante potete leggere l’articolo di Effemme 4 Jolanda e le sue figlie: eroine in cerca d’avventura. Non per niente uno dei tre cartoni animati che mi sono rimasti nel cuore anche dopo essere cresciuta è Lady Oscar.

Avete visto la foto della mia libreria. Non si arrivano ad avere così tanti libri (e ce ne sono altri sulla parete di fronte, anche se i più importanti sono quasi tutti qua) se non si ha una passione per la lettura che sconfina nella malattia. Quanti di questi libri li ho comprati dopo averli già letti almeno una volta? Quanti li ho comprati in più edizioni? Per fare la foto del trono di spade con i libri ho impiegato una buona mezz’ora. Ho dovuto recuperare il trono dalla camera da letto. Prima che vi facciate strane domande, sta lì perché è la stanza più grande ed è l’unico posto dove posso metterlo senza piazzarlo in mezzo ai piedi o davanti a un armadio. Per la verità rompe un po’ le scatole nel tirar su la tapparella, ogni tanto m’infilzo con una spada. Avrò un po’ di sangue reale pure io?

Per mettere il trono davanti alla libreria, perché mi piaceva di più che mezzo davanti alla finestra (con tanto di controluce), ho dovuto fare due viaggi. Pesa, è ingombrante e i supporti per il sedile tendono a staccarsi quando il trono si solleva perciò vanno spostati a parte. Poi ho dovuto cercare i libri e i gadget vari da mettere intorno al trono, e decidere la disposizione. Naturalmente qualcosa l’ho dimenticato: quattro magneti, una rivista e un po’ di materiale promozionale che mi sono portata a casa dopo averlo tolto dal negozio. Fatto il servizio fotografico (http://librolandia.wordpress.com/2013/07/30/materiali-di-lavoro-george-r-r-martin-e-gli-altri/) ho dovuto rimettere tutto a posto. Le passioni non sono vere passioni se non bruciano dentro, se non fanno fare anche follie.

Robert Jordan, L’Occhio del Mondo

Con questo non sto dicendo che bisogna fare gesti pericolosi o che non ci si deve curare degli altri. Ci sono limiti che non vanno mai trascesi, ma non si può essere sempre freddi e razionali. Ci sono persone che mi dicono che si vede che il mio segno zodiacale è vergine (a proposito, per me l’oroscopo è una cosa assolutamente stupida) perché sono metodica e precisa. Un esempio? Guardate la mia libreria. Tutti i libri hanno il titolo che va dall’altro verso il basso, anche se questo significa metterli sottosopra. Lo so, è difficile leggere le parole, ma chi ha La Ruota del Tempo nella mia stessa edizione sa benissimo che il titolo della saga si trova posizionato in alto sulla costa della copertina e non in basso. Robert Jordan è a testa in giù. Perché? Perché odio dovermi spostare alternativamente a destra o a sinistra del ripiano per leggere il titolo del libro a seconda che l’editore lo ha scritto dall’alto vero il basso o dal basso verso l’alto. Questa è la mia libreria e me la gestisco io, e se l’editore fa cose che non mi piacciono io rimedio come posso. Notato anche che i libri sono sistemati per collana? Lo scaffale a sinistra, il più corto, contiene i libri d’arte. Ovvio, sono i libri più pesanti e mettendoli su ripiani più corti diminuisce il rischio che questi ultimi s’imbarchino. Accanto inizia il fantasy. Terzo ripiano dal basso, il quarto e quinto libro da sinistra sono Il castello incantato e La regina della magia di David Eddings, quarto e secondo libro della Saga dei Belgariad in edizione Nord. Nel ripiano giusto sopra, accanto al Dardo e la rosa di Jacqueline Carey ci sono La fine del gioco, La valle di Aldur e Il segno della profezia, quinto, terzo e primo romanzo dei Belgariad in edizione Tea. Al ripiano ancora sopra ci sono i cinque volumi dei Mallorean, saga sequel dei Belgariad, in edizione Sperling paperback. Infine più a destra, inframmezzati dai volumi prima paperback e poi rilegati (ma dalla stessa grafica) di Kay e da altre due saghe di Eddings, ci sono Il codice rivano e Belgarath il mago in edizione Sperling & Kupfer. Sono i materiali di lavoro e uno dei due prequel dei Belgariad, l’altro, Polgara la maga, all’epoca non lo avevo comprato e mi rifiuto di spendere i 100,00 € che mi hanno chiesto per comprarlo ora. L’ho già letto e se proprio non dovessi riuscire a contenere la brama di possesso lo comprerei in inglese. Perché un’unica saga è sparpagliata così? Per il colpo d’occhio. Detesto vedere mischiati libri alti e bassi, sporgenti e stretti. Io ho una linea dolcemente discendente verso il centro, ammesso che non riesco a fare tutto un ripiano con un’unica collana. La libreria non è solo il piacere che quei libri mi hanno dato nella lettura, deve piacermi anche con lo sguardo.

Stefan Edberg

Un ultimo dettaglio. Se possibile tengo insieme gli autori e le saghe, e ovviamente i libri sono messi nel corretto ordine di lettura. Il secondo scaffale in basso a sinistra contiene gli Art & Dossier. Se vi state chiedendo perché ci sono dei disegni verdi che rovinano la costa la risposta è che un paio di anni fa Ilaria aveva voglia di disegnare, aveva in mano un pennarello verde e purtroppo io in quel momento non la stavo guardando. Non si riesce a leggere perciò mi dovete credere sulla parola. Quei fascicoli sono tutti sottosopra e rigorosamente messi in ordine alfabetico per artista. Quando se ne possiedono così tanti quale altro sistema si potrebbe adoperare per trovarli? Mente metodica, precisa, che non ha problemi con matematica e statistiche. Avete mai ascoltato Rino Tommasi fare una telecronaca di una partita di tennis? Io ho iniziato ascoltando lui e le sue statistiche, ci ho preso gusto e ne ho fatte ben più di quante lui ne facesse in telecronaca. Non so come siano i suoi quaderni, immagino strapieni di numeri, e mi piacerebbe poterli guardare. Facevo controlli di tutti i tipi. Io, per esempio, quando sapevo in anticipo che giocatore avrebbe affrontato Stefan Edberg guardavo tutti i precedenti. Anno, turno, superficie, set giocati, tiebreak, classifica al momento dell’incontro… Quando, prima della finale del Roland Garros del 1989, gran parte dei giornalisti erano convinti che Stefan avrebbe battuto facilmente Michael Chang perché fra i due la differenza di classe è enorme e il ragazzino sembrava giovane e poco esperto, io non ero tanto tranquilla. C’era il precedente di Indian Wells, un paio di mesi prima su cemento, con vittoria di Chang su Edberg. Sto passando di palo in frasca, lo so. L’avevo detto che sarebbe stato qualcosa di molto personale. La nostra mente fa così, diciamo una cosa ma ne abbiamo in mente un’altra infinità e ogni volta che scegliamo di dire – o di scrivere – qualcosa uccidiamo tutte le altre possibilità. Ovvio che anche stavolta faccio scelte, ma non mi do’ limiti. Non voglio essere razionale e parlare di un argomento. Ora sono viscerale, seguo l’impulso del momento. Lo so che chi viene sul mio blog lo fa per leggere di libri, in particolare di libri fantasy. Parlo anche di loro perché fanno parte di me, ma stavolta nonostante un testo lunghissimo non m’importa di essere letta. Anche chi scrive per sé in fondo desidera essere letto e ammirato. Stavolta è più probabile che io riesca ad annoiare tutti. Pazienza, posso sopravvivere alla cosa.

Ecco, sono metodica, precisa, razionale, faccio schemi, rifletto, ma quando mi appassioni di qualcosa ci metto tutta l’anima. Se qualcosa mi piace mi piace davvero. Leggere è parte di me. Nella mia vita da adulta credo di non aver letto nemmeno una pagina di un libro solo due o tre giorni, causa forza maggiore. E fra i giorni in cui non ho letto nulla non ci sono né quello del mio matrimonio né quelli della nascita delle mie bimbe. Secondo voi considerando che, specie fino a quando non ho avuto un lavoro full-time (sono di nuovo part-time dalla nascita della seconda bimba e anche così il tempo non basta mai) ho frequentato tantissimo la biblioteca, come avrei fatto a sapere quanti e quali libri ho letto, e quante volte li ho letti, se non avessi tenuto un elenco da quando avevo 17 anni? Non ho riportato proprio tutto, ma se volete farvi un’idea… http://www.anobii.com/01727bcaffb881566a/books.

Isaac Asimov, Le correnti dello spazio

Ho scoperto la fantascienza a 15 anni, grazie all’involontaria collaborazione del già citato fratello. Lui leggeva Isaac Asimov. Io ero a casa con la febbre, mi annoiavo e ho preso uno dei suoi libri. Sotto i 39° di febbre non ho mai avuto problemi a leggere, come non ne ho in macchina, o su un autobus in piedi o seduta al contrario. E non vedo perché se alla cassa del supermercato in coda davanti a me ci sono più di due persone io non debba tirare fuori dalla borsa il mio libro. Per la fantasy ho dovuto aspettare i 17 anni. Quando Wolfgang Petersen aveva tratto un film dal romanzo La storia infinita io avevo ritagliato gli articoli che lo riguardavano, la mia curiosità era andata al libro più che al film, ma non avevo fatto nulla. Poi ho iniziato l’anno integrativo. Avevo fatto il Liceo Artistico pensando di fare Architettura poi, complice un’insegnante bravissima, mi sono innamorata della Storia dell’Arte e sono finita a Lettere. Anno integrativo: viaggio più lungo, compagni di classe nuovi e nuovi consigli di lettura. Una compagna ha riportato la mia attenzione sulla Storia infinita, un’altra mi ha consigliato Il signore degli anelli di J.R.R. Tolkien e visto che in biblioteca faticavo a trovarlo prima ho letto Lo hobbit. In metropolitana – giuro che è successo davvero – ho visto una ragazza che interrompeva la lettura per andare all’inizio del libro a consultare la mappa. Io avevo già visto quel libro in biblioteca qualche giorno prima ma lo avevo ignorato, il suo gesto di vedere dove fossero arrivati i personaggi nel loro viaggio mi ha colpita a tal punto da spingermi ad andare in biblioteca, qualche ora più tardi, per prendere in prestito La spada di Shannara di Terry Brooks. Ancora adesso una delle prime cose che guardo in un libro nuovo, sia che l’ho appena comprato sia che stia ancora decidendo se acquistarlo, è se c’è una cartina e come è fatta.

Marion Zimmer Bradley, Le nebbie di Avalon

E poi entrando in una libreria che purtroppo non esiste più da anni, sostituita da un negozio di abbigliamento (buuu!) ho visto una copertina raffigurante una donna a cavallo con in mano una spada e la citazione che potete trovare in alto nel mio blog: “Con il nostro pensiero, noi creiamo giorno per giorno il mondo che ci circonda.” È una frase tratta dalla prima pagina delle Nebbie di Avalon di Marion Zimmer Bradley. Da quel momento non ho avuto più dubbi sul fatto che volessi leggere quel genere. Voglio dire, se ti piace un libro è quel libro a essere bello. Se te ne piacciono due dello stesso autore è l’autore che è bravo. Quando però iniziano a essere diversi i libri, di diversi autori, allora c’è da pensarci. Lo so che La spada di Shannara è talmente simile al Signore degli anelli che è possibile prevedere cosa avverrà nel romanzo di Brooks avendo già letto quello di Tolkien, me ne sono accorta fin da subito. Se però ero così affascinata da mondi simil-medievali dove le armi usate erano spade e archi, i problemi erano questioni di vita o di morte e spesso vigeva la legge del più forte, allora era meglio dare un altro sguardo a quei libri. In un pezzo che stavo scrivendo qualche giorno fa e sul quale poi mi sono interrotta ho citato un passaggio di Tolkien dal suo saggio Sulla fiaba. Tolkien dice che sognava i draghi, o che voleva leggere le loro storie (non ricordo le parole precise e non intendo andare a prendere il libro ora). Per lui leggere quelle storie era una necessità come respirare. Lo stesso vale per me.

J.R.R. Tolkien, Il medioevo e il fantastico

Un giorno ha vagato parecchio fra gli scaffali della libreria per decidere cosa leggere. Non c’era nulla di nuovo che mi attirasse, e alla fine ho optato per un romanzo di fantascienza. Però, come ho spiegato a una collega, non ero del tutto soddisfatta. Quel libro mi sembrava il migliore fra tutti, ma in quel momento io volevo un testo nel quale “la gente si uccide con la spada”. Sì, ho usato proprio queste parole una decina di anni fa. Volevo i draghi, non nel senso che volevo un romanzo in cui ci fossero i draghi – nella maggior parte di quelli che leggo e che amo non ci sono – ma perché volevo quel tipo di mondo. Ricordo la sensazione piacevole, tanti anni prima, di essere tornata a casa dopo un lungo viaggio e di potermi finalmente riposare aprendo per la prima volta il terzo o il quarto romanzo del Ciclo di Deverry di Katharine Kerr. Ricordo i lacrimoni versati in alcune scene del Destino di Valdemar di Mercedes Lackey, tutte le volte (cinque? sei?) che ho letto il libro. E se spesso mi sono immedesimata in un personaggio ancora più divertente era crearmene uno mio e inserirlo nella storia senza stravolgerla. Non doveva fare nessuna delle azioni più importanti compiute dai protagonisti, non doveva in alcun modo sostituirsi a loro. Doveva invece inserirsi nelle loro storie e interagire con loro. La cosa mi è riuscita benissimo con la saga della Legione perduta di Harry Turtledove. La trama era abbastanza articolata, e c’erano abbastanza personaggi, da riuscire a inserirne uno in più senza far torto a nessuno di quelli creati dallo scrittore americano. No, non vi dirò nulla di più di queste mie fantasticherie, quello che per me era importante era essere dentro la storia. In questo modo l’ho vissuta in modo molto più intenso che se mi fossi limitata a leggere quello che hanno letto tutti gli altri. Comunque è una cosa che non faccio più, con Jordan e Martin mi diverto a cercare indizi nascosti, a mettere insieme elementi che gli scrittori hanno seminato a centinaia, quando non migliaia, di pagine di distanza o a cercare le basi, i riferimenti. Ho cambiato modo di leggere senza però perdere la passione.

Guy Gavriel Kay, La rinascita di Shen Tai

L’ho già detto, ho anche imparato l’inglese (letto) per poter leggere i romanzi che volevo. Il drago rinato è stato pubblicato da Mondadori nel 1995, poi più niente fino a quando Fanucci non ha ripreso la pubblicazione dell’Occhio del Mondo nel 2002. In tutti gli anni di attesa per poter andare avanti nella storia non ho mai dimenticato quanto l’avevo amata. Quanto ancora l’amavo, perché per me le passioni – a meno di eventi catastrofici e imprevedibili – sono per sempre. Dimenticavo i dettagli della storia di Jordan – non la particolarità della divisione dell’Unico Potere in saidin e saidar, o i rapporti fra Egwene e Rand, Machin Shin, Padan Fain, il fratello dei lupi e le damane – ma non dimenticavo la voglia di andare avanti. Io ho imparato a leggere in inglese perché volevo leggere Robert Jordan e se ormai mi ero rassegnata all’idea che non sarebbe stato tradotto non mi ero rassegnata all’idea di non conoscere la fine della storia. Quando poi lo hanno tradotto ho letto altro. Ho cercato autori che non traducevano più da anni, come Mercedes Lackey e Guy Gavriel Kay. La prima mi è piaciuta, il secondo l’ho adorato. Ho trovato un articolo, che prima o poi vi tradurrò ma non ora – ora sto scrivendo di getto, e le citazioni che richiedono il tempo di una ricerca non le faccio – di una blogger che dice che dopo aver letto Kay non riesce a leggere altro perché non esiste altro in grado di donarle le stesse sensazioni. È una pienezza assoluta, e chi non l’ha provata non la può capire. Non dico che tutti la debbano provare con i romanzi di Kay, ma quando la si prova non si dimentica più. Come Bastiano della Storia Infinita.

Perché gli editori smettono di pubblicare un autore? Se non ci sono altri problemi il motivo più ovvio è che i libri di quell’autore non vendono. Non importa quanto io lo ami, se non piace anche a un numero abbastanza grande di altre persone l’editore non lo pubblica. Per questo io pubblicizzo senza pudore gli autori che mi piacciono: voglio che vendano, così l’editore va avanti a tradurli e io posso leggerli. Lo faccio per me, anche se poi dico che lo faccio per migliorare la conoscenza e la fama della fantasy, che anche questo genere può trattare temi importanti e che non sono solo favolette per bambini, che sono convinta che determinati autori se letti è quasi certo che piacciano. Tutto vero e tutto secondario. Lo faccio perché voglio leggere in italiano gli autori che mi piacciono.

Ho pubblicizzato Jordan – lo sto ancora pubblicizzando come pubblicizzo Kay, Martin, Brandon Sanderson, Silvana De Mari, Andrzej Sapkowski, Patrick Rothfuss e qualche altro – ma non mi fermo qui. La “febbre” da libro ha fatto sì che quando io avevo letto solo i primi dieci romanzi della Ruota del Tempo mi sono letta un bellissimo blog americano che mi ha spoilerato tutto l’undicesimo romanzo, La lama dei sogni. Leggevo, subivo uno spoiler, imprecavo e poi andavo avanti a leggere pensando “tanto lo spoiler l’ho già subito”. E poi ne subivo un altro, e un altro, e un altro… per questo gli ultimi tre Jordan e l’ultimo Martin li ho letti prima in inglese e poi in italiano, per poter leggere siti e blog americani senza subire spoiler. I guai inizieranno se HBO dovesse superare Martin. In quel caso io non guarderò la serie televisiva, per me Le cronache del ghiaccio e del fuoco sono i romanzi di George R.R. Martin, non la serie di David Benioff e D.B. Weiss, anche se complessivamente stanno facendo un buon lavoro. Se accadrà dovrò evitare gli spoiler e sarà dura. Comunque basta con le letture, a meno di qualche madeleine in cui mi troverò a inciampare in futuro.

Ovvio che, come tutti gli appassionati lettori io abbia iniziato a scrivere. Un diario per prima cosa, finché non ho scoperto mia mamma che lo leggeva a mia zia. Per me erano cose private, lei mi ha detto che glie lo leggeva perché erano testi molto belli. Grazie, ma non era quello lo scopo della scrittura. Era un focalizzarmi su me stessa, riflettere, era qualcosa di troppo intimo da poter essere condiviso. Questo è un testo su di me ma non è la stessa cosa. Sto scrivendo molto più di quanto avrei pensato, e proprio per questo sono sempre più convinta che nessuno arriverà fino in fondo. Dovrei fare la valigia, non scrivere, ma scrivere fa parte di me. Non potendo scrivere un diario mi sono buttata sui racconti. Ho provato un romanzo, credo di detenere il record di essere l’unica persona ad aver provato a plagiare contemporaneamente Le nebbie di Avalon e Il signore degli anelli. Ce ne vuole per mettere assieme due cose così diverse, e infatti non ci sono riuscita. Però appena mi sono resa conto di cosa stavo combinando ho buttato via tutto quanto. Poi ho scritto qualche racconto, fino a quando non mi sono arresa all’evidenza. Il talento narrativo non c’è, quindi è inutile che io ammorbi gli altri con le mie porcherie. Ora sono solo notizie, recensioni, approfondimenti e testi in cui vago senza capo né coda, anche se questi ultimi li riduco al minimo.

George R.R. Martin

Non ora. Ora ho bisogno di un testo così. Non sarei riuscita a scrivere nulla di serio. Un po’ di lavoro di ricerca l’ho fatto, ma scrivere davvero è al di là delle mie capacità. Capisco perfettamente come si debba sentire frustrato Martin quando quel che ha in mente non ne vuole sapere di essere scritto. Non mi sto paragonando a lui, non me lo sogno neppure, ma so cosa significa avere un’immagine precisa, una sensazione o un collegamento in testa e non trovare le parole per dare forma a qualcosa che appare cosi chiaro e perfetto…

A volte rimedio alla lacuna con il cioccolato extrafondente, ve l’ho già detto. A volte leggo. A volte cazzeggio. A volte riprendo in mano una delle mie vecchie passioni.

Daniela Silivas

Vi ho già citato Stefan Edberg. L’ho visto giocare in televisione per la prima volta nel 1985, ma è solo con Wimbledon 1988 che ho iniziato a seguirlo sul serio. Ho ancora il mio quadernetto di statistiche in cui sono annotati dati come percentuali di battuta, palle break, a volte pure numero delle volée vincenti delle partite che ho visto. Stefan si è ritirato alla fine del 1996, e allora? Io sono ancora una sua tifosa, e lo sarò sempre. Così come sono tifosa di Daniela Silivas, ginnasta romena capace di vincere l’argento individuale, l’oro su tre specialità, il bronzo su una quarta (il volteggio, quella che mi piace di meno) e non ricordo se l’oro o l’argento nel concorso a squadre alle Olimpiadi del 1988. Ha fatto ancora in tempo a partecipare ai mondiali del 1989 prima di ritirarsi in seguito a un infortunio e alla chiusura della palestra in cui si allenava nella Romania del dopo-Ceaucescu. Però per me la ginnastica artistica è lei. Se posso guardo ancora Mondiali e Olimpiadi ma non è la stessa cosa.

Andre Agassi, Open

L’unico che ho abbandonato è Andre Agassi, e per colpa sua. Ha sputato a un arbitro. Importa poco che non l’abbia colpito, quello che conta è il gesto. Ho letto la sua autobiografia, Open, e ora lo capisco meglio, e mi è piaciuto tantissimo il suo percorso di crescita. Ma la passione che c’era dopo averlo visto al Roland Garros del 1988, e che è durata fino all’inizio del 1992, non l’ho più ritrovata. Ho tifato per lui in anni in cui ha giocato male, e l’ho abbandonato subito prima della sua prima vittoria importante. Ma il comportamento è ben più importante dei successi. Non sono una tifosa di Edberg per caso, o solo perché giocava delle volée stupende e dei rovesci meravigliosi. Quando ho iniziato a prendere lezioni di tennis il mio maestro, vedendo il mio rovescio scarsissimo, ha provato a convincermi a giocarlo a due mani. Voleva che facessi almeno un tentativo, ma io mi sono rifiutata affermando categoricamente che “il rovescio si gioca con una mano sola”. Quando voglio so davvero essere una testa dura. Ma se Stefan lo giocava con una mano, perché io avrei dovuto usarne due? Anche per Jana Novotna e Martina Navratilova una mano era più che sufficiente, perciò…

Stefan Edberg

Ecco, da Edberg è meglio che stia lontana. È pericoloso, se attacco a guardarlo non la smetto più. Chi se ne frega che conosco già i risultati, non lo guardavo per i risultati. Sì, lo guardavo anche per quelli, facevo il tifo e alla fine i successi erano importanti, ma la cosa bella erano i suoi movimenti. L’eleganza fatta persona. Lo avete mai visto sul campo? Se anche avesse vinto la metà di quello che ha vinto io non avrei tifato di meno per lui, perché il suo modo di giocare era pura gioia per gli occhi. E se della Silivas il materiale che si riesce a trovare è scarsotto, su Stefan ci sono in giro parecchi video, anche piuttosto lunghi. Se di un tennista la cosa più importante era l’eleganza dei movimenti e già amavo la ginnastica artistica, potevo non guardare il pattinaggio artistico?

Il mio primo ricordo è quel triplo Axel che ha fatto entrare Midori Ito nella storia. Erano i Campionati del Mondo del 1989. La gara delle donne era l’ultima, e la Ito con un programma tecnicamente difficilissimo ha mandato in palla la favorita Jill Trenary e le ha strappato il titolo. Jill si è rifatta l’anno dopo, ma il giorno dopo io ho guardato il mio primo galà. Pattinaggio per il pattinaggio, non ci sono titoli in palio. Non è importante saltare per conquistare punti, è importante divertirsi e far divertire. Lì ho capito cosa può essere il pattinaggio. I giochi erano finiti, sapevo già chi aveva vinto i vati titoli. Fra gli uomini un certo Kurt Browning, un canadese che l’anno prima era stato il primo uomo capace di compiere un salto quadruplo. Nel 1988 l’impresa non lo aveva portato più avanti di un sesto posto, nel 1989 gli era valsa il titolo. Vederlo e innamorarmene è stato tutt’uno. A prescindere da mio marito, che ancora non conoscevo. Ernesto è arrivato dopo, ed è un altro tipo di amore. Quello per Kurt comunque è talmente intenso che fatico a esprimerlo.

Gary Beacom

Chi guarda il pattinaggio artistico in Italia? Soprattutto, chi lo guardava all’inizio degli anni ’90? Ora c’è Carolina Kostner, bravissima anche se io tifo per Yu-na Kim (in una delle svariate grafie del suo nome che ho trovato). La Kostner ha catturato il pubblico italiano come neanche Barbara Fusar Poli e Maurizio Margaglio erano riusciti a fare, probabilmente perché la sua carriera sta durando di più ed è caratterizzata da una quantità di alti e bassi a dir poco impressionante. Ho tifato per tanti pattinatori, alcuni li ho scoperti anche dopo che erano diventati professionisti. Qualche nome l’ho già fatto. Gary Beacom è bravissimo anche se da noi non lo conosce nessuno e ha vinto ben poco, Scott Hamilton, Jane Torvill e Christopher Dean, Isabelle e Paul Duchesnay, Susanna Rakhamo e Petri Kokko, che non hanno mai vinto un titolo mondiale e non per questo li amo meno, Kristie Yamaguchi, Oksana Baiul, Michelle Kwan, e tanti, tanti altri che magari mi hanno dato emozioni per un solo esercizio ma che con i loro volteggi, i loro passi e i loro salti mi hanno fatta sognare. Non è questione di perfezione tecnica, altrimenti avrei dovuto fare il tifo per Oksana Gritchuk ed Evgeni Platov, che tecnicamente erano più bravi di Rakhamo-Kokko, li hanno sempre battuti ma mi sono sempre piaciuti meno dei finlandesi. Quanto a Beacom, vanta un decimo posto ai Mondiali, un undicesimo alle Olimpiadi e non ha mai neppure vinto i campionati nazionali canadesi, preceduto nei suoi anni migliori da Brian Orser. Chi se ne frega. Se dovessi scegliere fra guardare un esercizio di Beacom o uno di Brian Boitano o di Victor Petrenko, entrambi campioni olimpici oltre che mondiali, io sceglierei sempre Gary. I risultati positivi danno una carica di energia notevole, ma le passioni sono tali a prescindere dai risultati.

Kurt Browning

Certo, è più semplice tifare per uno che è già diventato campione del Mondo. Lo sai già che è bravo, lo ha appena provato. Però la presenza di Kurt sul ghiaccio, pur con la mia inesperienza dei primo periodo, non era paragonabile a quella di nessun altro. Non ricordo se la prima volta che mi ha fatto ridere così tanto da farmi venire giù le lacrime è stato al galà del 1989 o a quello del 1990. È canadese, grave difetto perché almeno i pattinatori europei li si vedeva anche al campionato continentale, quindi due volte l’anno invece di una. Trasmetteva Telemontecarlo, quando andava bene pur Rai 3. Ho ammirato Kurt vincere nel 1990 e nel 1991 dopo il successo del 1989 che per me era già dato acquisito. Cosa ne sapevo io di cosa c’era dietro? Delle polemiche, di quanto ben pochi credessero in lui ritenendo la prima vittoria come qualcosa di occasionale più che di un risultato meritatamente raggiunto dopo un duro lavoro. Sapevo che in Canada lo amavano, ma del resto filtrava ben poco. Non c’era internet e per i giornali italiani il pattinaggio non esisteva. Poi, nel 1992, quando ormai avevano capito tutti che il più forte era lui, si è fatto male. Problemi alla schiena, aveva spiegato la commentatrice, ma non avevo capito quanto fossero gravi.

Kurt Browning

Il programma lungo dell’Olimpiade non l’ho visto. Pochi secondo dopo che Kurt è sceso sul ghiaccio è saltato il segnale, e ho potuto sentire solo la voce. Marina D’Agata? Matilde Ciccia? Entrambe sono state commentatrici, ma se non ricordo male la voce che ho sentito di più è quella di Marina. Non era incoraggiante, non c’erano cadute ma quel che sentivo non era bello per niente. Anche Carolina Kostner qualche Mondiale fa ha fatto un libero così: niente cadute ma tutti i salti con una o due rotazioni in meno. Con un programma così, è naturale perdere posizioni. Un mese dopo la schiena era migliorata, Kurt si era allenato un po’ e si è classificato secondo dopo il sesto posto olimpico. Ora conosco decisamente meglio tutta la vicenda della schiena, logorata da tutti gli incredibili salti che aveva fatto per anni.

Kurt Browning in Casablanca

Mondiali 1993, Praga. Quelli che ricordo meglio. Non possedevo un videoregistratore, così ho messo le due casse dello stereo una sopra all’altra, vi ho piazzato sopra la videocamera usando le Pagine Gialle per raggiungere l’altezza esatta e un quaderno per dare la giusta inclinazione e con un sistema lievemente arrangiato ho registrato quei due esercizi. Ero malata già allora. Ce l’ho ancora quella cassettina, anche se con gli anni si è rovinata.

Bravissimo. Il programma tecnico era diversissimo da tutto quello che proponevano gli altri. Musica classica? No, basta. Volendo si può pattinare sulla musica classica, si possono fare interpretazioni romanziche, ma il pattinaggio non è solo quello. È energia, dal primo all’ultimo istante. È una serie di salti immensi, dai quali sembra che il pattinatore non debba più atterrare. È una sequenza di passi spettacolare. È per questo che amo anche Beacom e Hamilton, pure loro sono bravissimi nei passi. No, non è solo questo, è tutto l’insieme, la fluidità, la naturalezza, l’interpretazione totale. Guardate Casablanca.

Casablanca

In certi momenti ha un’espressione terribilmente strafottente. Una vera faccia da sberle. In quel momento lui è Humphrey Bogart. Cammina con le mani in tasca. Fa passetti sulle punte. Butta via una sigaretta, alla faccia della lega antifumo che in Canada lo ha tanto criticato chiedendo che gli venisse tolto il suo ultimo titolo nazionale. No, all’epoca non sapevo di quest’ulteriore polemica, ero solo incantata da quel che vedevo. L’esercizio non è perfetto, intendiamoci. Su un triplo lutz atterra male, mette giù il secondo piede, ma è questione di un attimo. Il salto perde di valore ma la coreografia non ne viene toccata. Anche nel tecnico aveva avuto problemi con il triplo flip, ma li si era solo sbilanciato un po’ e lo aveva salvato, quindi nessuna detrazione. Ecco, Kurt in quel momento, quel giorno, era Bogart. Alla prima occasione utile io ho guardato Casablanca, film che non avevo mai visto prima, solo per vedere il tizio da cui Browning aveva preso ispirazione. Ogni volta che riguardo quel programma mi vengono i brividi.

Ha cambiato il pattinaggio. Se oggi gli atleti interpretano davvero i loro pezzi, scelgono ogni tipo di musica e portano avanti storie complete al meglio delle loro capacità è perché Kurt gli ha mostrato cosa era possibile fare. E poi c’è stata l’Olimpiade del 1994.

Kurt Browning dopo il programma tecnico alle Olimpiadi del 1994

Kurt è stato l’ultimo a scendere sul ghiaccio. Sembrava rilassato, lo rcordo mentre fa i complimenti a Philippe Candeloro, giovane promettente che aveva appena concluso un ottimo esercizio che gli sarebbe valso il terzo posto provvisorio, quindi era uno dei potenziali rivali. Uno entrava in pista, l’altro usciva. Poi Kurt si è piazzato in centro alla pista e ha iniziato il suo esercizio. St. Louis Blues. Dopo, per la commentatrice italiana è stato facile sparargli addosso. Ha criticato il costume troppo austero, la musica poco coinvolgente, in pratica ha bocciato completamente l’esercizio per colpa di quei due errori. Io non li ho mai dimenticati, e qualcosa mi dice che non li ha dimenticati neppure lui. Combinazione triplo axel-doppio toe loop, ok. Sarebbe stato meglio se il secondo salto fosse stato un triplo, dà più punti, ma ok. Non è davvero quello a fare la differenza. Se la differenza fra due atleti è piccola è importante, ma ci sono cose più importanti. Come non sbagliare gli otto elementi obbligatori del programma corto, tre dei quali sono salti. All’epoca erano una combinazione di due salti doppi o di un salto triplo e un salto doppio o di due salti tripli, e poi un salto triplo e il doppio axel.

Kurt stava interpretando, il suo viso fin da quando era iniziata la misica era intonato a tutto il resto. Lui non stava eseguendo un esercizio su quelle note, le stava vivendo. E poi ha spinto troppo un salto. Dal replay si vede, ha ruotato troppo e non è riuscito a controllare l’atterraggio. Quanto ci vuole per eseguire perfettamente un salto? Quanto tempo dura? Quanto ce n’è per gli aggiustamenti del caso? Ho sentito più volte i pattinatori affermare che mentre erano in aria hanno deciso di fare un giro in meno perché si erano resi conto di essere scomposti, e avevano temuto di non riuscire ad atterrare correttamente se avessero proseguito e fatto il salto che avevano programmato. Loro riescono a pensare in quegli istanti, sono composti, sanno quello che stanno facendo. Eppure è anche tutto così breve, così rapido. Lo ha detto nell’intervista post gara: è più facile parlare quanto tutto è andato bene, perché devi raccontare di tutte le cose belle che hai fatto. Diventa molto più difficile quando devi parlare degli errori, perché sono cose che accadono in una frazione di secondo.

Kurt Browning in Casablanca

I pattinatori cadono. Si sbaglia, è normale, Anche Browning è caduto altre volte, e pure in competizioni importanti. Qui è caduto, si è rialzato ed è andato avanti a interpretare il programma, perché è quello che era allenato a fare. Ma cosa passa nella testa in quei momenti? Il limite principale di Carolina Kostner, che le auguro di aver superato dopo le ultime due stagioni mondiali, è che se qualcosa va male all’inizio non riesce a venirne fuori. Continua a pensare a quel che ha sbagliato e infila un errore dietro l’altro. Kurt ne è sempre venuto fuori. Si rialza, e va avanti a interpretare. Non ci sono parole per descrivere la bellezza della sua sequenza di passi. Oltretutto rapidissima. Come diavolo fa a non inciampare sui suoi stessi piedi? Una caduta, un elemento tecnico sbagliato, significano addio titolo olimpico. Lo sapevamo tutti, lui per primo.

Un programma tecnico dura due minuti e mezzo. Mancava… quanto? un minuto? un minuto e mezzo quando ha fatto l’errore? Cosa si può fare in questi casi? “The longer I skated, the more I realized what had happened and I just lost my concentration” ha affermato. Non avevo visto l’intervista, figuriamoci se in Italia la potevano trasmettere. Il televideo, nel fornire i risultati, aveva dato solo i nomi e i punteggi dei primi, non era andato a vedere chi c’era indietro, chi mancava dalle zone alte della classifica. A chi poteva importare di un canadese, anche se era reduce da tre titoli mondiali consecutivi? Ma Kurt ha perso la concentrazione, e si è visto quando ha trasformato quel doppio axel in un axel semplice. Ricordo di aver detto “Non è possibile!” tale è stata la mia reazione di stupore. E non solo io, la commentatrice di France 2, quando ho rivisto l’esercizio con commento in francese, ha detto “ce n’est pas possibles!”.  Il commentatore di Eurosport ha detto “It’s impossible!” La stessa espressione, tutti e tre. Per questo mi è rimasta in mente. Certo che era possibile. Ha perso la sua concentrazione, e lo avevo capito subito che era stato quello il problema, senza bisogno di sentire le sue parole. Sapeva fare il triplo axel in combinazione con il troplo toe loop, ma quando si è trattato di vincere la delusione per la caduta e il mancato titolo olimpico ha sbagliato, e ha mancato pure il doppio axel. La mancanza di tempo per digerire la delusione ha portato al secondo elemento obbligatorio mancato, e addio sogni di una qualsiasi medaglia olimpica. I punteggi tecnici parlano chiaro, sono compresi fra 4,4 e 4,9, forse nemmeno a 15 anni prendeva punteggi così bassi. Dodicesimo posto. È normale che sul kiss & cry, il divanetto da dove gli atleti ascoltano il loro punteggio, abbia qualche gesto di stizza.

Kurt Browning nel 1992 nell’Uccello di fuoco

Fin qui quello che avevo visto 19 anna fa. No, non avevo visto o sentito l’intervista ma certi pensieri gli si leggevano chiaramente in faccia. Mamma mia, è davvero passato così tanto? Due giorni dopo c’è stato il programma lungo. Lui ha ripresentato Casablanca, ma il programma olimpico non era alla stessa altezza di quello del mondiale dell’anno prima. Atterraggio su due piedi sul quello che sarebbe dovuto essere un triplo axel, trasformato invece in doppio, e un triplo filp su cui ha messo giù la punta del pattino, anche se questo l’ho visto solo al replay. Buon programma ma non all’altezza di quello che aveva fatto vedere ai mondiali. Terzo libero della giornata e scalata dal dodicesimo fino al quinto posto. Se non fosse arrivato deconcentrato sull’axel nel programma corto una medaglia l’avrebbe presa.

È stata la sua ultima gara da dilettante. Subito dopo è passato al professionismo, e in qualche modo avevo saputo già all’epoca di due dei suoi tre titoli mondiali professionistici. Mi ero abbonata a Tele+ per vedere lui. Ricordo benissimo di averlo riconosciuto mentre facendo zapping stavo passando per un istante sul canale criptato. Era impossibile che non lo riconoscessi. E quando ho visto una pubblicità che diceva che il canale avrebbe trasmesso pattinaggio anche la settimana successiva sono corsa a comprarmi un decoder. La settimana dopo ero lì a guardarlo pattinare. Ho visto qualche trionfo della carriera professionistica e qualcosa di quello straordinario showman che è diventato. Kurt non ha mai vinto una medaglia olimpica? E chi se ne frega. Non lo amo di meno per questo. Non lo ama di meno l’intero Canada per questo, anche se del Canada m’importa poco. Tutto quello che mi manca di quella terra in cui non sono mai stata sono i pattinatori e Guy Gavriel Kay, ma quando vedo Kurt pattinare sono canadese anch’io.

Kurt browning

Qualche giorno fa stavo scrivendo un pezzo su Martin. Forse avevo pure due file aperti contemporaneamente su cui lavorare. Del resto se leggo una decina di libri nello stesso periodo, perché non posso scrivere più articoli? Ma a volte, per quanto la cerchi, la parola giusta non viene. La frase non ne vuole sapere di farsi scrivere. L’ho già detto, a volte la soluzione è un pezzo di cioccolato. C’è un limite però a quanto se ne può mangiare senza doverne poi pagare il prezzo. Così ho fatto una cosa ben più dannosa, ho scritto Kurt Browning su Youtube. Lo avevo già fatto altre volte, ma era sempre in ritagli di tempo, quando avevo al massimo mezz’ora. Stavolta no. Con marito e figlie in vacanza (la valigia! fra qualche ora parto e devo ancora fare la valigia, dormire e andare al lavoro e voi non avete idea di che ora sia) l’unico impegno era il lavoro. Fuori di lì, con tutti gli articoli urgenti pronti, potevo fare quello che volevo. Così ho guardato un filmato. Solo uno. E poi solo un altro. Però c’è anche quell’esercizio. Ma come si è evoluto il suo stile? Ed era quello che mi aveva fatto tanto ridere? Come diavolo ha fatto a ballare Singing in the Rain sotto la pioggia senza che il ghiaccio gli si sciogliesse sotto i pattini?

Kurt browning in Singing in the Rain

Singing in the Rain

Ora lo so, l’ho letto. Faceva una sequenza di passi, un salto o quello che era, poi asciugavano il ghiaccio, lo zamboni entrava a lisciarlo e lui ripartiva per una sola altra scena. Venti minuti per ogni singola sequenza di pattinaggio. Hanno impiegato un giorno a fare i filmati di un video di tre minuti, ma montati insieme così non si capisce. Per la verità qualche dubbio mi era venuto nel vedere la giacca troppo poco bagnata, ma con la qualità non eccelsa del video è difficile da dire. Quello che è eccelso è l’esercizio. Che in seguito ha riproposto dal vivo, senza pioggia ma anche senza nessun trucco, ed è pattinaggio allo stato puro. Kurt Browning è Gene Kelly :

Singing in the Rain

A furia di guardare video mi sono imbattuta anche nel programma corto dell’Olimpiade del 1994. Solo che stavolta c’era anche un’intervista che non avevo mai visto prima, e ovviamente l’ho guardata. Il video è questo:

https://www.youtube.com/watch?v=3mRiLdJbplY

Notato come fatichi a trattenere le lacrime nell’uscire dalla pista? Non le trattiene però con l’intervistatore. “It’s gone. It’s really gone this time”. Questa sola frase riassume tutto. Parole vecchie di 19 anni, seguite da una carriera professionistica straordinaria (che però all’epoca non aveva alcun modo diprevedere), ma a sentirle, e vedere il suo viso, ho visto l’uomo e non il pattinatore, ed è stata una scena che mi ha fatto male. “I know a lot of people are sad in Canada – sorry” ha aggiunto, manifestando un dolore immenso.

Jana Novotna con la duchessa di Kent a Wimbledon nel 1993

L’anno prima avevo visto Jana Novotna piangere sulla spalla della duchessa di Kent dopo aver buttato via il titolo di Wimbledon. Sì, poi alla sua terza finale quel piatto se l’è portato a casa, ma nel 1993 Jana non lo poteva sapere.

Kurt non lo avevo visto, non ancora. Finché sono in pista sembrano tutti lontani. Sono atleti straordinari, donano emozioni immense ma dietro l’interpretazione l’uomo è dificile da vedere. Qui c’era, ed era estremamente fragile. Ferito. “Things are like this”. Per quanto bene ti puoi sentire, per quanto forte e sicuro di te puoi essere, le cose possono volgere al peggio in un istante.

Lo so, è solo un esercizio di pattinaggio artistico, e pure bello datato. It’s gone. Anche se la gara non era ancora finita. C’era da tornare sul ghiaccio per il libero, dopo che tutti i suoi sogni si erano infranti. Fra le cose che ho trovato in questi giorni c’è anche una sua dichiarazione:

When you start talking about all the things I’ve won, don’t ever forget that I also lost the biggest competition in the world you can lose.

Malgrado tutto quello che ha vinto, ha perso la competizione più importante. Ho detto che il Canada lo ama. Molte donne hanno donato i loro gioielli per far realizzare un trofeo in oro da donargli al posto della medaglia che non ha mai vinto. E, a detta del giornalista che ha realizzato il servizio, probabilmente lo hanno fatto più per quell’intervista che per quelle cadute. Volevano dirgli che non era importante la medaglia mancata, erano importanti le emozioni che lui sapeva trasmettere. E quelle non sono mai mancate. Il Canada lo ama. il suo pubblico lo ama, ed è un amore ricambiato. Basta guardarlo in faccia ogni volta che scende sul ghiaccio. Basta sentire il boato. Basta lasciarsi trascinare da quei movimenti perfetti, anche quando fa il pagliaccio. L’anno dopo lui si è inginocchiato in mezzo a una pista di pattinaggio e davanti a 16.000 persone e in diretta televisiva ha chiesto alla sua fidanzata se lo voleva sposare. L’uomo, al di là dell’atleta straordinario e dell’interprete senza pari.

Il Casablanca olimpico non è allo stesso livello di quello mondiale dell’anno prima. Eppure la sua soddisfazione è enorme, si vede che è davvero felice per quello che ha fatto. Ha ritrovato la giusta sensibilità nella pattinata e donato emozioni al pubblico, e questo è ciò che conta, anche se quando ha sbagliato l’axel si è dato una pacca in fronte per la frustrazione. Anche questo un gesto molto umano, che nulla ha tolto all’esercizio. Le uniche cose che non andavano erano quei due errori, e la posizione di partenza che gli ha impedito di aspirare a una medaglia.

https://www.youtube.com/watch?v=Y_y-FPJQjcc.

Visto questo sono partita in una lunga ricerca guardando, fra l’altro, i campionati canadesi per capire come avesse fatto Elvis Stojko a batterlo, e ho visto scene simili a quelle olimpiche. E ho visto il disastroso primo periodo professionistico. Ho letto non so quanti articoli d’epoca. Ho visto i cambiamenti in lui come pattinatore, già bravissimo da ragazzino e cresciuto in maniera tale da rendere impossibile ogni descrizione. Avrebbe potuto lasciarsi travolgere da quel disastroso 1994 e non lo ha fatto. Si può solo ammirarlo, e lasciarsi trascinare dai suoi esercizi.

Ho scritto tantissimo, senza un filo conduttore se non alcune delle mie passioni. Non tutte, già così ho esagerato. Ho trascorso alcuni giorni in un vero e proprio stato di Browningmania. Sapevo che il limite sarebbe stato oggi visto che per un po’ non avrò più una connessione decente. Mi sono solo sfogata alla tastiera visto che non posso farlo andando da spettarice in una pista. L’ho detto, il fatto che sia canadese è un grave difetto, i tour li fa regolarmente fra Canada e Stati Uniti. Ora vado, dopo aver pubblicizzato un po’ qualcuna delle mie passioni. E se siete arrivati fin qui e ritenete di aver letto solo cavolate fatti vostri. Io vi avevo avvisato fin dal principio di non leggere.

E visto che è estate, Summertime.

Summertime



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