da "Reportage - La Patagonia d’inverno"
di Cristina Romano. Foto di Andrea Giuseppe Sanfilippo
Nota: è possibile visionare l'elenco completo delle foto sul sito www.agsanfilippo.eu
Una regione che si estende per migliaia di chilometri tra pianure verdi e vulcani, aree desertiche e distese di ghiaccio, parchi incontaminati, picchi che si protendono verso il cielo nascosti tra la nebbia e le nubi dense, fiumi tortuosi, laghi immensi, il mare che si perde in fiordi labirintici, il sole basso che di rado fa capolino tra le nuvole mandando tiepidi e fiacchi raggi di luce a riscaldare l’aria gelida. Tutt’intorno silenzio. Solo il rumore del vento, che soffia con raffiche violente ed improvvise, spezza la quiete ed il silenzio quasi surreale della Patagonia nei giorni d’inverno.
Ma è proprio quando la natura diventa più prepotente e le condizioni climatiche più estreme che riesci ad afferrare davvero il fascino primordiale e selvaggio di questi luoghi.
Nel Nord, il Distretto dei Laghi, con il suo paesaggio delicato e rassicurante, i numerosi specchi d’acqua, i pendii erbosi e i prati luccicanti ricorda le campagne della Germania meridionale. Nel clima umido e piovoso di una domenica d’inverno, il piccolo villaggio di Puerto Varas poltrisce adagiato tra il lago Llanquihue e basse colline verdi. I negozi sono chiusi e per strada ci sono poche persone. Case basse si susseguono una dopo l’altra; nei piccoli giardini che le circondano troneggiano alberi nudi dai grossi tronchi sui cui rami uccelli dal petto chiaro (mimus thenca) verseggiano con malagrazia. Improvvisamente le nuvole si diradano lasciando spazio a qualche raggio di sole che timidamente illumina l’enorme lago. Un grande arcobaleno si spiega sullo specchio d’acqua e al di là di esso, immerso tra le nubi, il maestoso vulcano Osorno e tutt’intorno una lunga catena di montagne innevate. Un lungo marciapiede cammina lungo la riva; al termine di esso, sotto la collina, una grande statua di rame che raffigura una donna con le braccia protese verso il vulcano, a invocarne la benevolenza e a fermarne la lava rovente.
Inerpicandosi verso la collina si raggiunge un belvedere da cui si ha un’ampia visuale del paese, di cui si coglie nitidamente l’impronta europea, effetto dell’immigrazione tedesca dell’Ottocento: il governo Cileno, interessato ad acquisire l’area controllata dagli indigeni Mapuche, incentivò tutte le iniziative che ne favorissero la colonizzazione e, nell’ambito di tale progetto, il console cileno ad Amburgo, facendo leva sul diffuso malcontento della classe operaia tedesca ne esortò l’emigrazione verso il Cile con la promessa di un miglioramento della qualità della vita e del lavoro. Successivamente, acquisita la regione al governo Cileno, fu la volta della borghesia cui furono assegnati vasti appezzamenti di terreno per la realizzazione di abitazioni, scuole ed infrastrutture. Ancora oggi, nella parte alta del paese si possono vedere le antiche case dei primi coloni tedeschi e, più in generale, in tutta l’area, si può cogliere distintamente l’influenza che tale contaminazione ebbe nel gusto urbanistico, come nell’approccio culturale e nelle tradizioni culinarie.
A breve distanza da Puerto Varas si stende per numerosi ettari il Parco Nazionale Vicente Pérez Rosales, la riserva naturale più antica del Cile. Lo sguardo si perde tra basse montagne innevate ed imponenti vulcani a forma di cono che si stagliano tra le nubi; tra di essi il Vulcano Osorno che completamente imbiancato troneggia sulla pianura d’erba chiara, la vegetazione bassa e rada, le distese di fango. Nei mesi invernali, l’abbondanza di neve e le condizioni meteo avverse ostacolano l’ascesa alla vetta del vulcano, costringendo il più delle volte a percorsi che corrono lungo le sue pendici, lambite da un’ansa del lago Llanquihuè. Il vulcano concede un’ulteriore meravigliosa vista a Los Saltos dove il fiume Petrouhè, scorrendo in particolari formazioni geologiche di origine vulcanica, si trasforma in potenti cascate d’acqua gorgogliante.
Il fascino delicato della Patagonia del Nord lascia spazio, viaggiando verso Sud, al fascino misterioso e prepotente delle sconfinate lande meridionali, dove la tundra ed il ghiaccio si estendono per centinaia di chilometri.
Sul Fiordo di Ultima Esperanza, Puerto Natales, un modesto villaggio di pescatori, costituisce il punto d’accesso ad alcuni parchi nazionali della Patagonia meridionale: il Bernando O’Higgins ed il Torres del Paine.
Una piccola imbarcazione conduce alla scoperta del Parco O’Higgins navigando attraverso il Fiordo; è l’alba e la barca incede faticosamente lungo la costa, frenata dal vento forte, tra isole di cormorani e piccole cascate, fino a raggiungere i ghiacciai Balmaceda e Serrano, due lingue di ghiaccio azzurro che si tuffano nel mare, circondate da basse montagne innevate. Alla foce di un fiume, che scorre pigramente in attesa del disgelo, giace una barca di legno distrutta dalle intemperie. Il Parco, che include la maggior parte dei ghiacciai del campo di ghiaccio della Patagonia del Sud, conserva la sua natura selvaggia e incontaminata, grazie al territorio aspro e, in alcuni punti impenetrabile, che ne ha scoraggiato l’accesso al turismo di massa.
Da giorni tempeste di pioggia, neve e vento si abbattono sulla regione. La maggior parte dei sentieri
del Parco del Torres del Paine è chiusa per eccessivo innevamento, così come i rifugi e gli accampamenti. Soltanto il Rifugio Grande, sul Lago Peohè, è aperto ed offre un servizio di base: niente riscaldamento, niente energia elettrica ad eccezione di due ore al giorno; soltanto un letto, una doccia calda che dà su una finestra malandata da cui entrano spifferi di aria pungente, gas per cucinare ed un’unica stanza con una stufa a legna per asciugare gli abiti e le attrezzature fradice di pioggia. Nei mesi invernali anche il servizio di trasporto pubblico è interrotto: per raggiungere l’ingresso del Parco da Puerto Natales occorre affidarsi a bus privati impiegati per i pochi turisti infreddoliti, prevalentemente sudamericani, diretti ai belvedere situati nella fascia più esterna della riserva. In pochi vanno oltre. Un’area di oltre 240.000 ettari, un territorio sconfinato che, lontano dall’affollamento estivo, viene restituito alla natura e agli animali, ritrovando la sua dimensione. Per chilometri e chilometri incontri soltanto mandrie di cavalli selvaggi che corrono alle pendici delle montagne in una pianura immensa ingiallita dall’inverno. Dove l’erba è più alta, vedi spuntare di tanto in tanto qualche grossa lepre bianca. I guanaco, cugini dei più noti lama, si muovono flemmaticamente nella tundra. Alzando lo sguardo, in lontananza, alcuni grossi condor volano in cerchio, segnale di una preda morta nei dintorni.
I pochi sentieri sgombri di neve si sono trasformati in ruscelli di acqua e fango. La pioggia rende i tratti di roccia nuda estremamente scivolosi. Il vento soffia con raffiche violente e repentine che superano i cento chilometri l’ora; man mano che ti inoltri nella riserva diventano più forti, ma impari a prevederne l’arrivo: un rombo intenso, giusto il tempo di accovacciarsi sotto il peso degli zaini e la raffica arriva, impietosa, sferzante. Lungo i tracciati che corrono bassi lungo il lago Peohè le raffiche spazzano forte l’acqua spingendola in onde nebulizzate verso la riva, che si insinuano come nebbia tra gli alberi spogli e neri in uno spettacolo fumoso, quasi spettrale; minuscole trombe d’aria si formano rapide ed improvvise vorticando veloci al centro del lago per poi dissolversi. Le sue acque, turchesi per la presenza di ciano batteri, si scuriscono sotto il cielo plumbeo, per riprendere tutto il loro colore, intenso e brillante, nei brevi attimi in cui le nuvole si diradano.
In quegli stessi fugaci momenti dalla foschia emergono maestosi, quasi prepotenti, i picchi del Paine, del tutto invisibili fino a pochi istanti prima: quello che sembrava un paesaggio piatto circondato dal cielo brumoso si popola di massicci di granito e di torri alte, lisce, appuntite, taglienti come lame. Il vento soffia via la nebbia dai ghiacciai azzurri nascosti tra le cime e spazza via la neve dalle rocce scure e, come un’artista con la sua matita, ridisegna i contorni del paesaggio. Nella velocità e nell’impetuosità con cui tutto cambia, nella forza libera e dirompente della natura senti la vita palpitare in tutta la sua energia ed il suo dinamismo. E in quella forza così travolgente ed inarrestabile, lungi dal provare timore o sgomento, cogli l’essenza stessa della libertà.
In un saliscendi continuo, promontorio dopo promontorio, conquisti la vista di laghi dalle sfumature e dalle forme variegate, come il Sarmiento, il Nordenskjold ed il Gray, che prende il nome dalla scura tonalità dei suoi colori. Costeggiandone le sponde si raggiunge l’omonimo ghiacciaio che si tuffa nelle sue acque in due grandi lingue dall’intensa colorazione, che dal blu scuro si schiarisce sino al cobalto. Nell’acqua iceberg azzurri galleggiano l’uno accanto all’altro, sfiorati di tanto in tanto da un fioco raggio di sole.
Questo Parco, peraltro dichiarato dall’Unesco, negli anni settanta, riserva naturale della biosfera, esprime esattamente lo spirito selvaggio e profondamente spirituale della Patagonia, la potenza della natura, la fatica e l’entusiasmo della conquista.
Non può dirsi altrettanto, invece, di un parco forse anche più famoso del Torres del Paine: il Parco dei Los Glaciares situato nell’area argentina della Patagonia.
Il fascino intrinseco e l’imponenza dei ghiacciai del Parco, Perito Moreno in primis, è innegabile, ma la fruibilità degli stessi riflette l’approccio tipicamente argentino alla natura: una risorsa da mettere in bella mostra e da sfruttare commercialmente anche a discapito della sua conservazione e della sua bellezza. Il concetto stesso di parco nazionale si trasforma: non più strumento inteso alla protezione dell’ambiente naturale, ma strumento ipocrita al servizio del turismo di massa. Una strada asfaltata, da El Calafate, si addentra nel Parco percorsa da bus ed auto private che conducono i visitatori fin sotto il ghiacciaio, che si può osservare percorrendo una passerella di ferro, in alcuni punti munita finanche di copertura e vetrate. E così ti ritrovi catapultato dinanzi ad un ghiacciaio millenario, terza riserva al mondo d’acqua dolce, ad osservarlo come fosse un quadro in un museo.
Ma i ghiacciai non sono quadri ed i parchi non sono musei.
L’attrattiva della Patagonia è la possibilità di misurarsi con la natura e di esplorare luoghi incontaminati. E questo è quel che avviene nell’area cilena dove l’amministrazione, con un approccio più responsabile, rispettoso e conservatore, ha adottato una politica intesa ad una maggiore protezione delle proprie risorse naturali; una politica che tra l’altro si trova a combattere con i disastri naturali che nei secoli il Cile ha dovuto ripetutamente affrontare e con i disastri causati dall’uomo, come il devastante incendio che nel 2011 distrusse più di tredicimila ettari del Parco Nazionale del Torres del Paine.
La Patagonia, tuttavia, non è solo il luogo della natura prepotente e selvaggia, delle scalate epiche o delle imprese affascinanti descritte nei romanzi. La Patagonia è anche un luogo in cui la storia ha lasciato un’impronta visibile di sofferenza, teatro di soprusi e identità culturali tradite, ed è un luogo in cui il dualismo fra arretratezza e progresso è ancora lungi dall’essere del tutto superato.
Un territorio solitario, ai confini del mondo, ma provvisto di abbondanti risorse naturali e minerarie. E dunque un territorio appetibile, come dimostrano le grandi colonizzazioni spagnole e portoghesi del Cinquecento, di cui recano l’impronta principalmente i territori più meridionali e, in particolare, la Terra del Fuoco. L’arida isola è attraversata da una strada sterrata che segue la costa bassa e frastagliata, battuta dal vento nell’orizzonte grigio illuminato da rari raggi di sole. Nulla intorno, soltanto guanaco adagiati nella tundra. Non è difficile immaginare come potesse essere il territorio ai tempi della colonizzazione da parte degli spagnoli che, attirati dai giacimenti auriferi della zona, sterminarono del tutto la popolazione indigena, di cui oggi resta traccia soltanto nelle vecchie canoe e negli altri reperti esposti nel museo di Porvenir. Una popolazione ai confini del mondo che viveva di pesca e di caccia, sfidando e vincendo i gelidi inverni australi; uomini che hanno vinto la forza della natura ma che nulla hanno potuto contro la barbarie selvaggia dell’uomo “civilizzato” che spinto dalla brama di ricchezza e di conquista ha ritenuto che la via più semplice fosse rappresentata dalla morte e dalla distruzione. D’altronde è il concetto stesso di “colonizzazione” che contiene in sé
l’errore - e l’orrore - perché presuppone la volontà di supremazia attraverso l’espropriazione di terre altrui e la cancellazione di identità culturali e talora, come in questo caso, di un intero popolo. E così, non sai se considerare come un tributo o come un atto di ipocrisia quella statua così espressiva che, al centro di Porvenir, ritrae un indigeno che impugna un’arma, con lo sguardo rassegnato e carico di dolore di chi ha perduto la sua terra ed il suo futuro.
La storia recente dell’isola ha visto svilupparsi la parte occidentale, soggetta al governo argentino, in misura nettamente superiore rispetto a quella orientale amministrata dal Cile. La prima, anche grazie ad una politica di agevolazioni fiscali, è oggi un centro di produzione industriale, mentre la seconda è pressoché disabitata. Si contano all’incirca cinquemila abitanti, concentrati nel fatiscente villaggio di Porvenir e nell’insediamento nel Nord dell’isola in cui alloggiano gli operai impiegati nell’estrazione del petrolio, una delle principali fonti di ricchezza dell’area dei Magallanes, che include il centro cittadino di Punta Arenas.
L’estrazione del petrolio è anche una delle attività che mantiene vivo il traffico nello Stretto di Magellano che collega la Terra del Fuoco al continente.
Lo Stretto ha rivestito in passato un ruolo strategico sia dal punto di vista commerciale sia dal punto di vista politico e militare, e nel 1881 la navigazione nelle sue acque fu regolamentata dal Trattato di Confine tra Cile ed Argentina. Il Trattato, reso necessario dal rapporto conflittuale tra i due paesi, sancì in perpetuo il carattere neutrale dello Stretto, con divieto di costruirvi fortificazioni ed avamposti militari (principio poi confermato nel Trattato di Pace e Amicizia del 1984) nonché la libera navigazione nelle sue acque vietando l’applicazione di tasse o tributi a coloro che lo attraversassero per trasportare merci. Tenuto conto delle difficoltà di navigazione per i bassi fondali e i venti incessanti, lo Stretto è divenuto oggi una rotta commerciale secondaria, sostituita dal più fruibile Canale di Panama. Continua, invece, ad essere oggetto di grande attenzione da parte del mondo scientifico sia per lo studio dei suoi fondali, sia per l’esigenza di preservarne l’equilibrio ambientale che, negli anni settanta, fu messo a dura prova da un grave incidente: una petroliera che trasportava centonovantacinquemila tonnellate di petrolio naufragò perdendo parte del proprio carico; si stima che circa sessantamila tonnellate di petrolio si riversarono nello Stretto e sulle sue coste. In seguito a quell’incidente il Governo Cileno si determinò ad una più drastica politica ambientale che portò, dapprima, all’adozione di una stringente regolamentazione del traffico marittimo e, nel 2003, all’istituzione di un’area marina protetta.
Navigando nelle acque scure e ventose dello Stretto, alcuni traghetti assicurano collegamenti giornalieri tra la Terra del Fuoco e Punta Arenas, sulla cui costa stormi di albatros e cormorani si affollano numerosi. Sta scendendo la sera e con essa una neve fitta ad avvolgere le strade della cittadina. L’inverno rende tutto più affascinante, più solitario, ma anche più autentico. E soprattutto ti dà la possibilità di cogliere l’essenza di un luogo vivendolo nella sua quotidianità. Punta Arenas è una delle poche cittadine sviluppate della Patagonia Meridionale, punto di partenza per le spedizioni scientifiche nell’Antartide e avamposto commerciale la cui fortuna è legata all’estrazione di petrolio e gas naturale nonché all’esportazione di lana e carne ovina. Banche, uffici, negozi si susseguono l’uno dopo l’altro, i taxi sfrecciano veloci nelle vie principali, professionisti in giacca e cravatta si affrettano sui marciapiedi, vocianti ragazzini in divisa rientrano a casa dopo la scuola. C’è vita e benessere in questa città dove la modernità cerca di farsi strada insinuandosi nelle pieghe più conservatrici della società.
Se ci si addentra nel cuore della città, tra le case basse e colorate, inaspettatamente ci si trova dinanzi ad un fantasma della passata dittatura: un edificio verde con l’intonaco scrostato su cui campeggia una scritta rossa che a grandi caratteri recita: “aquì se torturò”.
La struttura, denominata “El Palacio de las Sonrisas”, è stato il principale centro di tortura del SIM, il servizio di intelligenza militare, nella regione dei Magallanes. Nel centro, che aveva la peculiarità di avere collocati l’uno accanto all’altro le sale di tortura e gli uffici amministrativi, si torturavano contemporaneamente decine di persone e, i sopravvissuti, prima di essere rilasciati erano costretti a firmare un documento in cui dichiaravano di non aver subito maltrattamenti: si stima che durante l’operatività della struttura furono torturare almeno millecinquecento persone. Questo palazzo testimonia il terribile periodo della dittatura del generale Pinochet. Diciassette anni in cui questa regione, come tutto il resto del Cile, ha vissuto nel terrore e nell’orrore dei soprusi e delle violenze, nel delirante tentativo di cancellare la sinistra marxista. A Punta Arenas come nelle altre regioni dello Stato, migliaia di persone furono arrestate, torturate, umiliate, uccise; molti scomparvero nel nulla. Non solo aperti dissidenti, ma anche avvocati, professori, studenti. Una politica, quella di Pinochet, che varcava i confini nazionali del Cile per sposare la campagna di sradicamento della sinistra dall’intero Sudamerica, al fianco di Argentina, Bolivia, Brasile, Paraguay ed Uruguay, spacciata per controterrorismo. Una politica che fu, verbalmente, condannata per le violazioni dei diritti umani che portò con sé ma che di fatto fu materialmente ed economicamente sostenuta dagli Stati Uniti come da alcuni stati europei. Molte delle persone seviziate dal regime sono ancora vive e testimoni dell’orrore di quegli anni sono costrette a fare i conti con il proprio passato. Qualcuno è rimasto fermo a quei giorni, bloccato come in un fotogramma, e basta il suono del campanello della porta della propria abitazione perché trasalisca. Altri hanno elaborato la propria tragedia personale e sociale veicolando la rabbia e il dolore in forme d’arte. Altri ancora hanno deciso di spendere la propria vita profondendo ogni sforzo nella tutela dei diritti dell’uomo. Adesso, alcuni di quei luoghi di tortura e di morte, come l’edificio di Punta Arenas, sono diventati centri culturali che promuovono la vita e i diritti umani. Tuttavia, comprensibilmente, i cittadini di Punta Arenas, ed i cileni in generale, non vogliono ricordare più quel periodo che ne aveva reso vulnerabile il futuro e assopito la coscienza politica e sociale.
Adesso il Cile avverte più che mai il bisogno di guardare avanti proseguendo lungo un cammino di rinascita e stabilizzazione; benché sia il paese più ricco e stabile del Sud America, il primo a siglare un accordo per il libero commercio con gli Stati Uniti nel 2003 e quello che gode di incisivi finanziamenti esteri, soprattutto cinesi, soffre infatti ancora di gravi disparità sociali ed economiche e non riesce ad affrancarsi dal dualismo tra progresso e arretratezza. Per un verso Il territorio ed il clima inospitale ne hanno reso difficile tanto l’urbanizzazione quanto la creazione di collegamenti tra le aree rurali e i pochi grandi centri abitati determinando isolamento e alimentando le difficoltà di una crescita omogenea sul piano sia sociale che economico. Per altro verso la politica del paese molto spesso ha adottato strategie, che pur determinando un aumento della ricchezza dello Stato, ha danneggiato le fasce più deboli e le aree più isolate, con il risultato che, ancora oggi, più di seicentomila persone costrette a condizioni di estrema povertà. Di questo dualismo, in Patagonia, ne cogli una traccia evidente.
Nella Patagonia del Nord, man mano che ci si allontana dal centro di Puerto Varas, più ricco e moderno, i villaggi nei dintorni si riducono a null’altro che un’insegna, un minimarket ed un piccolo gruppo di case modestissime, separate le une dalle altre soltanto da rustiche staccionate di legno. Piccole baracche di lamiera, eppure coloratissime e ordinate con tende alle finestre e fiori sui davanzali. Alla fermata vedi scendere giovani insegnanti con le loro cartelline colorate, madri con i bambini appena usciti da scuola, donne di rientro dal lavoro che si affrettano verso il minimarket. Nulla di diverso da ciò che vediamo e viviamo ogni giorno, eppure qui cogli qualcosa di diverso. Cogli la normalità della vita, scandita da ritmi pressoché universali, ma declinata secondo canoni diversi e soprattutto cogli l’antitetico rapportarsi di tale normalità fatta di abiti e zaini alla moda con l’intrinseca aria di povertà che tuttavia ancora respiri.
Questa continua antitesi tra ricchezza e povertà, cura e abbandono,progresso e conservatorismo diventa sempre più accentuata man mano che viaggi verso Sud. Penso in particolare a Puerto Natales, così vicina eppure così diversa dalla ricca e viva Punta Arenas. Case malmesse, per lo più baracche di lamiera colorata, si susseguono l’una dopo l’altra intervallate soltanto da piccole aree verdi semi abbandonate, infestate da sterpaglie di un verde sbiancato e cumuli di immondizia pronta per essere bruciata. Ma la Patagonia, specialmente in inverno, è anche questo: priva del velo della farsa estiva, abilmente cucito dall’industria turistica, questa regione ti mostra le sue debolezze e le sue contraddizioni, con le sue strade deserte e infangate, i marciapiedi sporchi e lastricati di ghiaccio, i ristoranti chiusi, gli autobus malandati, i servizi ridotti, i centri di informazione inefficienti per l’incapacità di fornire informazioni univoche e corrette, gli abitanti chiusi in loro stessi e vagamente assopiti.
Viaggiando lungo le strade della regione numerosi cartelli pubblicizzano le iniziative del Governo, impegnato in progetti di grandi opere ed infrastrutture che “uniscano i cileni” e in campagne intese a promuovere la crescita e la scolarizzazione dei giovani, per superare l’isolamento, l’emarginazione, le disparità sociali ed economiche. E se l’auspicio è che non si tratti di meri slogan pubblicitari, unicamente intesi ad acquisire il consenso dell’opinione pubblica, ma iniziative che portino a risultati concreti, la speranza più grande è che il progresso e la modernità non cancellino quell’autenticità e quella spiritualità che ancora si respira nella Patagonia d’inverno.
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