PATER TENEBRARUM | Paura | L’autobiografia di Dario Argento

Creato il 10 dicembre 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

di Massimiliano Sardina

A chi verrebbe mai in mente di intitolare Paura la propria autobiografia? L’etimologia del termine è riconducibile al latino pavor, ossia timore, paura.  Sul piano inconscio e cognitivo la paura scaturisce da una sensazione di pericolo (concreto o immaginario), desunta da un calcolo razionale a sua volta legato a un meccanismo ancestrale. È un sentimento atavico comune a tutto il regno animale, uno “strumento” forgiato dall’evoluzione ai fini della sopravvivenza. Lovecraft la definì “la più antica e potente emozione umana”, riferendosi in particolare alla paura dell’ignoto. Ed è questa paura, respingente e insieme così misteriosamente attraente, ad aver guidato la singolare indagine visiva del cineasta romano Dario Argento. Quella degli Argento è una vera e propria dinastia foto-cinematografica. Capostipiti i nonni Alfredo e Margherita, titolari dello studio fotografico Luxardo, con sede a Roma in via del Tritone (ed è qui che nascerà Dario nell’ormai lontano 1940). Affermati fotografi anche lo zio Elio e la mamma Elda (di origine brasiliana); nello studio Luxardo il piccolo Dario vide sfilare parecchie dive del dopoguerra: Isa Miranda, Sophia Loren, Silvana Pampanini, Gina Lollobrigida… ed è qui, spiega il regista, che il suo immaginario cominciò a popolarsi di immagini pregnanti e intense suggestioni. Determinante – racconta Argento, sempre prodigo di aneddoti e ricostruzioni dettagliate – fu, all’età di dieci anni, la visione del film Il fantasma dell’Opera di Arthur Lubin (1943). «… Non ero spaventato, quanto piuttosto impressionato. Mi colpì molto l’atmosfera torbida del film, il modo in cui era rappresentato il disagio mentale, l’aspetto mostruoso del protagonista (che indossava una maschera per nascondere il volto sfigurato).»

All’inizio però più che il cinema agì la letteratura, complice la ricca biblioteca di famiglia. Un testo tra tutti lo segnò profondamente: I racconti del Grottesco e dell’Arabesco di Edgar Allan Poe «… Lo lessi da cima a fondo, e poi ricominciai dalla prima pagina. Un po’ alla volta, inoltrandomi nelle sue storie, mandandole a memoria, mi resi conto che era come se avessi trovato la chiave di una stanza che c’era da sempre nella mia testa, ma di cui ignoravo l’esistenza.». L’incubazione fu piuttosto lunga e il giovane Dario, prima di focalizzare la sua fascinazione su un versante strettamente registico, s’imbatté in una gavetta da giornalista, recensore e critico cinematografico; a diciassette anni, abbandonati gli studi liceali, entrò nella redazione dell’«Araldo dello Spettacolo» e, successivamente, in «Paese Sera». Questi anni, scanditi da centinaia di pellicole visionate, funsero da palestra e da laboratorio sperimentale. Il passo dalle recensioni ai primi abbozzi di soggetti e sceneggiature per il cinema fu breve. «… Ormai le storie che abitavano nella mia testa scalpitavano, chiedendo a gran voce la mia attenzione, implorando di essere scritte.». Fondamentale si rivelò nel 1966 l’incontro con Sergio Leone (insieme a un altrettanto giovane Bernardo Bertolucci, Argento collaborò al trattamento del film C’era una volta il west). Dopo questa fortunata esperienza l’aspirante regista Dario Argento cominciò a collaborare attivamente in diversi film, e nell’ambiente degli addetti ai lavori il suo nome prese così a circolare più diffusamente. Conquistata una credibilità ora non restava che proporsi come regista tout court e, dopo qualche difficoltà, vennero finalmente a crearsi le condizioni favorevoli.

Un sostegno concreto arrivò anche dal padre Salvatore Argento, già da diversi anni attivo nel cinema anche in veste di produttore. Per sostenere parte dei costi di lavorazione di questo fantomatico primo film, papà Argento fondò la SEDA spettacoli (dall’unione dei due nomi Salvatore e Dario Argento). Il 19 febbraio 1970 esce finalmente nei cinema L’uccello dalle
piume di cristallo
. Il film incassò oltre un miliardo di lire e trionfò subito dopo anche in America con il titolo The bird with the crystal plumage. Primo capitolo di una “trilogia zoologica” cui seguirono Il gatto a nove code (1971) e 4 mosche di velluto grigio (1971). Fu subito chiaro a tutti, anche alla critica più prevenuta, che queste pellicole avevano inaugurato un nuovo genere cinematografico, un genere che, pur prendendo le mosse dal giallo hitchcockiano, dal thriller e dall’horror movie, si spingeva ben oltre sconfinando dichiaratamente nella morbosità. Fin dagli esordi il cinema argentiano tenta una visualizzazione, una trasposizione iconografica del perturbante freudiano. È Freud, ibridato a certe atmosfere di Poe, il vero ispiratore della poetica argentiana. Attratto dai lati più oscuri, misteriosi e contorti della psiche umana, Argento si concentra sull’intreccio di storie complesse dove menti malate e perverse emergono dall’ombra per sfogare, con l’esercizio estetizzante e rituale della violenza, la psicopatologia sottesa al loro trauma. Un manifesto in questo senso è Profondo rosso, che uscì nelle sale nel marzo del 1975 consacrando Dario Argento “Maestro del Brivido”. In Profondo rosso – che inizialmente doveva intitolarsi La villa del bambino urlante – l’estetica argentiana si precisa e si palesa. «… Neppure io smettevo di interrogarmi su che cosa stessi facendo con il mio cinema. Una pellicola dopo l’altra, perfezionandomi di volta in volta, avevo messo a punto un’estetica dell’omicidio che sarebbe diventata un marchio di fabbrica, contagiando l’immaginario del pubblico e di molti altri registi dopo di me.» In Profondo rosso l’assassino (la mente perversa che rivelerà la sua identità, e quindi le ragioni del suo trauma, solo sul finale) uccide in ossequio a uno schema prestabilito, e prima della mattanza celebra un rituale sciamanico di vestizione e di contemplazione feticistica dell’arma. Questo mostrum argentiano – sempre assente ma sempre presente come una demonica incombenza – incarna una malvagità potentissima, intelligente e ubiqua (può infatti celarsi dietro ogni personaggio); adulto e infantile, sessualmente disturbato, una personalità pericolosamente patologica cui solo il dolore altrui può recar sollievo. Temibile e pervasivo il mostrum argentiano è guantato di nero ed è bardato di impermeabili e cerniere, una sorta di macabra divisa da boia su cui spiccano, per contrasto, le cupe luci degli occhi cerchiati di trucco e il taglio freddo di lame e mannaie. Non è mai solo. Ad accompagnarlo passo passo nei suoi itinerari sanguinari c’è un altro soggetto altrettanto sadico e nefando: la colonna sonora (e va reso merito al cineasta romano di aver trasformato la musica in un personaggio, non secondario o di contorno ma assolutamente protagonista).

Se nella “trilogia zoologica” le colonne sonore portano la firma di Ennio Morricone, in Profondo rosso compaiono per la prima volta Gaslini e i Goblin. Il fortunato sodalizio con i Goblin connoterà gran parte della produzione successiva di Argento, in un singolare (e inutilmente imitato) connubio tra suono e immagine, tra suggestioni sonore e sequenze visive. La musica nel cinema di Argento, lo ribadiamo, è elemento attoriale, è materia viva nella struttura narrativa. Al tappeto sonoro della filmografia argentiana va intrecciato anche il tópos della “dispercezione uditiva”: «… spesso i miei personaggi, prima di morire, credono di sentire il proprio nome bisbigliato dall’assassino.». In Profondo rosso, come già in 4 mosche di velluto grigio, compare un’altra incarnazione del perturbante freudiano: l’automa (il pupazzo), un oggetto-soggetto che scimmiotta l’umano privandolo al contempo di ogni emozione. Altra costante nel cinema di Argento è la presenza di personaggi dichiaratamente omosessuali, sdoganati con assoluta normalità (per restare a Profondo rosso si pensi ai personaggi di Carlo e Massimo). Sullo sfondo la “magica” Torino, una location particolarmente amata dal regista. Il film successivo (1977) è Suspiria, considerato un capolavoro anche dalla critica più severa.

Scritto a quattro mani con la compagna Daria Nicolodi, Suspiria è una favola nera narrata in toni espressionistici, una storia di streghe ambientata in un’accademia di danza. Il soggetto è liberamente tratto dal Suspiria de profundis di Thomas de Quincey, dove si parla di tre Dolori contrapposti a tre personificazioni benigne; le tre sorelle e madri Suspiriorum, Tenebrarum e Lacrimarum torneranno prepotentemente nel film successivo Inferno (1980). Al di là della trama e al di là delle scene cruente, quello che caratterizza il film sono i colori innaturali e saturi, estremamente affascinanti; illuminati dai violenti viraggi rossi, viola e blu, i volti sembrano sfumare in effetti pittorici (un dichiarato omaggio al cinema espressionista tedesco, qui rivisitato in chiave gothic-fauve). Anche in Suspiria la colonna sonora dei Goblin gioca un ruolo fondamentale. Inferno, altro capolavoro onirico di Argento, vanta una straordinaria colonna sonora composta da Keith Emerson. Anche qui a farla da padrone sono i toni favolistici virati nei pervinca e nei ciano. La trilogia verrà completata più di vent’anni dopo (La terza madre, 2007). Suspiria e Inferno sono i film più complessi e sperimentali della filmografia di Argento, e per entrambi è stata fondamentale la collaborazione di Daria Nicolodi. Nelle pagine dell’autobiografia – puntellate di aneddoti legati ai set e di numerose curiosità – Argento passa in rassegna la tormentata e complessa genesi di ogni singolo film, soffermandosi in modo particolare sui lavori più riusciti (da Profondo rosso a Opera). «Il mio è un cinema idealista, fatto di visioni, di incubi e di moltissime letture. Il mondo di fuori, il caos che governa i destini degli uomini, non ha mai inquinato la mia immaginazione.».

Quello di cui Argento non parla è il declino qualitativo del suo cinema dalla fine degli anni ’80. Tra Phenomena e Giallo, qualitativamente parlando, ci passa l’oceano Atlantico. In film come Trauma, Non ho sonno, La sindrome di Stendhal… si rintracciano senza fatica virtuosismi registici e soluzioni di tutto rispetto (ma, con ogni evidenza, non è abbastanza). La terza madre è stata un’occasione perduta (nonostante molte sequenze ben riuscite e l’ottima colonna sonora). Cedimenti a parte, quello di Dario Argento è stato, e resta, un cinema di potente suggestione. Paura, curata da Marco Peano per Einaudi, è una cine-autobiografia, un racconto che sembra dispiegarsi come un unico piano sequenza, un ciak che da Il fantasma dell’Opera di Arthur Lubin (1943) arriva fino a The Sandman, l’hoffmanniano omino di sabbia protagonista del nuovo progetto in cantiere del “Maestro del Brivido”.

Massimiliano Sardina

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