Il fanatismo e l’estremismo sono fenomeni molto più comuni di quanto non si immagini. L’estremista e il fanatico si scoprono quando è ormai troppo tardi: quando hanno commesso una strage. A quel punto, sull’onda dell’indignazione e sulla gran messe di notizie riversate dai mass-media, ci chiediamo come sia possibile giungere a tanto. Poi, però, un po’ si trova una spiegazione – il più delle volte è questa: è un pazzo, sono dei folli – un po’ si dimentica e se ne riparlerà solo alla prossima strage. Ma non sempre i fanatici e gli estremisti sono fanatici ed estremisti pericolosi: si possono coltivare “fissazioni” e “pensieri estremi” anche senza essere socialmente pericolosi. Si pensi al fenomeno dei fan che dedicano in modo, appunto, estremo e fanatico la loro vita al loro idolo. Si consideri questa confessione di Marie, fan maniacale di Marilyn Monroe: «La passione per Marilyn ha rappresentato per me come una seconda nascita. Dalla mia famiglia ho avuto solo fregature, che mi hanno profondamente amareggiata… Marilyn invece non mi hai mai delusa. La considero la mia miglior amica, anche se gli altri lo trovano un po’ folle. È vero che dedico a questa mia passione tutto il tempo libero e buona parte del mio denaro, ma senza dubbio ne vale la pena. Non sono la sola ad avere questa fissazione: tutti sanno chi è Marilyn Monroe. E, nel microcosmo degli ammiratori di Marilyn, mi sono fatta un nome e tutti mi conoscono. In questo piccolo mondo, l’unico che per me conti veramente, sono anch’io una celebrità e tutti mi rispettano oltre a possedere qualche pezzo da collezione importante, so davvero tutto sulla vita di Marilyn. Dovete credermi, conosco particolari che la maggior parte delle persone ignora, persino tra i suoi fan. Quando ricevo lettere di gente che mi chiede informazioni su Marilyn, anch’io mi sento importante». La confessione di Marie, fan maniacale di Marilyn Monroe, ci introduce in argomento: la frustrazione.
«Il pensiero estremo» – sottotitolo: come si diventa fanatici – è un libro, ora pubblicato da Il Mulino, di Gérald Bronner, che ha vinto il Premio europeo Amalfi per la sociologia e le scienze sociali. Uno studio accurato e interessante che qui non possiamo riportare interamente. Dedicherò queste righe a un solo aspetto, ma forse quello più importante, dello studio di Bronner sul fanatismo: la frustrazione generata dalla società contemporanea che tende a suscitare ambizioni e aspirazioni che sono destinate, in media, a essere disattese e smentite dalla realtà dei fatti (in fondo, la realtà sembra fatta apposta per svolgere questo ruolo: smentire i nostri desideri e le nostre aspirazioni). Hannah Arendt riflettendo sul fenomeno del totalitarismo – tipico della modernità – ha scritto: «I movimenti totalitari evocano un mondo menzognero di coerenza che meglio della realtà risponde ai bisogni della mente umana e in cui, mercé l’immaginazione, le masse sradicate possono sentirsi a proprio agio ed evitare gli incessanti colpi che la vita e le esperienze reali infliggono agli uomini e alle loro aspettative». Che cos’è una setta se non una microsocietà in cui la vita ricomincia daccapo e offre una seconda chance? Che cos’è una setta, una volta che ci si è entrati, se non un mondo menzognero isolato dalla realtà in cui la realtà, chiusa là fuori, non può più svolgere quella funzione salutare che smentisce le nostre aspettative e i nostri progetti e che noi chiamiamo semplicemente “vita” oppure “esperienza” oppure “sfortuna”? Ecco perché “il pensiero estremo”, in quanto è il modo in cui ci si difende dalla realtà frustrante – ma questo è solo uno degli aspetti del pensiero estremo di cui parla Bronner -, non è un’eredità di un passato antico e arcaico che non passa ma è un elemento della stessa modernità.
Come sosteneva Tocqueville, le società democratiche causano, “per loro natura”, un tasso di frustrazione superiore a tutti gli altri sistemi sociali. Non sarà di certo la frustrazione che ci farà abbandonare la democrazia e la libertà, ma interrogarci sul perché con la democrazia e la libertà ci sia più frustrazione è utile a capire noi stessi e il nostro mondo. I principi su cui si fonda la democrazia, o almeno così dovrebbe essere, sono: ricompensa del merito e rivendicazione dell’uguaglianza. Fu proprio Tocqueville il primo a notare, con il suo viaggio in America, le conseguenze paradossali della società democratica. Sul piano materiale i democratici non hanno granché da lamentarsi. Il loro malessere è psicologico. La loro malinconia deriva dall’insoddisfazione. Contrariamente alle società tradizionali, in democrazia il destino o il futuro di ognuno di noi è “aperto”: nessuno può sapere in anticipo se è destinato al successo o al fallimento, dunque tutti possono sognare in grande. E dal momento che i democratici rivendicano l’uguaglianza, sono particolarmente inclini a notare e sottolineare le differenze di status. Il diritto di possedere le stesse ricchezze del resto della popolazione e la speranza di ottenere qualcosa in più degli altri costituiscono due invarianti dell’equazione della frustrazione. Tocqueville è più chiaro: «Quando sono abolite tutte le prerogative di nascita e di fortuna, quando tutte le professioni sono aperte a tutti, e uno può arrivare con le sue sole forze all’apice di esse, davanti all’ambizione degli uomini sembra aprirsi un campo immenso e facile, ed essi immaginano volentieri di essere chiamati a grandi destini. Ma è una concezione fallace, che l’esperienza corregge ogni giorno (…). Quando la disuguaglianza è la legge comune di una società, finisce che le maggiori disuguaglianze non colpiscono l’occhio; quando tutto è all’incirca allo stesso livello, l’occhio è ferito anche dalle più piccole (…). Ecco le cause cui va attribuita la singolare malinconia che mostrano spesso gli abitanti dei paesi democratici, pur in mezzo alla loro abbondanza, e il disgusto per la vita che a volte li colpisce nel pieno di un’esistenza agiata e tranquilla».
Tutti possono sognare, ma solo pochi riescono a trasformare il sogno in realtà. Nella maggioranza dei casi la realtà è diversa dal sogno. La vita ci porta a – come si dice comunemente – “fare i conti con la realtà”. Ma non tutti si arrendono o rassegnano. Qualcuno preferisce continuare a sognare e lotta per vedersi riconosciuti risultati e successo che ritiene gli spettino quasi di diritto. L’esistenza di alcuni democratici sarà noiosa e per sfuggirla si convinceranno di meritare molto di più di ciò che hanno, coltivando ambizioni sempre più grandiose. Un tale sentimento – risentimento – si può convertire in un disprezzo per il mondo materiale, che non riconosce loro successo e risultato, e può alimentare la credenza consolatoria nell’esistenza di un mondo superiore, lontano e al riparo dalle illusioni e delusioni terrene. La frustrazione e il risentimento possono essere combustibili per il fanatismo e il pensiero estremo. È solo un’ipotesi, ma ha delle buone ragioni. Non pochi guru, prima di diventare profeti e santoni, hanno tentato senza successo la strada dello show business. È il caso, ad esempio, di Vernon W. Howell, leader della setta dei davidiani, che affrontò l’FBI nel febbraio del 1993, vicino a Waco, in Texas. Lo scontro si concluse con un drammatico incendio e 86 morti, è noto. Ciò che è meno noto è che il guru aveva provato la fortuna a Hollywood e nel mondo della canzone. Anche il grande maestro di Scientology, prima di fare affari con l’impresa settaria, aveva provato con la carriera da scrittore. E si può ancora citare Rael, cantante fallito che ha inciso 45 giri, e Marshall Applewhite, uno dei mentori della setta suicida californiana Heaven’s Gate, che ha riscosso un certo successo con il titolo Little Mary Sunshine.
Si prenda il caso di Richard Durn, somigliante ad alcuni estremisti islamici. Laureato, ha partecipato ad azioni umanitarie nella ex Yugoslavia e a manifestazioni contro la globalizzazione. A 30 è disoccupato, abita ancora la madre e sopravvive con i sussidi statali. Militante ecologista, ex membro del partito socialista francese, Durn svolge dal 2001 il ruolo di tesoriere della Lega dei diritti umani di Nanterre. La sera del 26 marzo 2002, dopo aver ascoltato dalla gradinate le delibere del consiglio comunale di Nanterre, scende nella sala e apre il fuoco contro gli eletti, causando 8 morti e 19 feriti. Un gesto causato dalla radicalizzazione della frustrazione? C’è ragione di crederlo se si presta fede alla testimonianza dello stesso Durn poco prima di morire (si getterà dal quarto piano del Quai des Orfèvres, sede della polizia giudiziaria di Parigi). Ina una lettera-testamento inviata ad una amica scriveva: «Poiché ero diventato un morto vivente per mia stessa volontà, ho deciso di farla finita eliminando una mini-élite locale, simbolo del potere in una città che ho sempre esecrato… Diventerò un serial killer, una macchina di morte. Sono solo un fallito che non ha voglia di morire da solo. Ho avuto una vita di merda, ma almeno per una volta voglio sentirmi libero e potente». Commenta Gérald Bronner: «Il suo attivismo e l’impegno nel mondo associativo avevano certamente condotto Durn a immaginarsi un destino molto diverso. Un altro elemento della sua testimonianza conferisce al tragico gesto compiuto un tono dostoevskijano: come il personaggio di Rasklnikov in Delitto e castigo, che evocava Napoleone per trasformare il suo crimine in un gesto grandioso, Durn spera ‘di essere all’altezza di bin Laden, di Milosevic o di Pol Pot, di Hitler o di Stalin».
E l’assassino di John Lennon? Mark D. Chapman rientra in quelle coorti di individui che cercano di superare il fallimento personale sviluppando sogni di notorietà. Una sera del 1980 sparò cinque colpi contro Lennon, freddandolo davanti alla sua residenza di New York, all’angolo della 72esima strada. Si dice che l’assassino, un tempo ammiratore del cantante, fosse rimasto deluso per la sua ipocrisia: Lennon predicava la povertà e praticava la ricchezza. In realtà, le cose sembrano diverse. L’omicidio fu pianificato e premeditato, e questo fatto smentisce l’ipotesi del rifiuto dell’autografo e quindi la reazione omicida. Come dirà proprio Chapman nelle sue richieste di scarcerazione, era ossessionato dal suo fallimento esistenziale e per vincere l’idea del fallimento sperò di ottenere gloria e notorietà uccidendo una star. Nelle democrazie e nelle nostre società che generano illusioni che diventano delusioni, perché il sogno che diventa realtà è l’eccezione e, soprattutto, le democrazie e la società di massa sono appunto tali, cioè massificate, funziona per certi versi il mito di Tantalo. Questo infelice personaggio della mitologia greca, descritto da Omero, Ovidio e Virgilio, condannato agli inferi e consumato dalla sete e dalla fame, vedeva l’acqua ritirarsi ogni volta che provava a bere, mentre i frutti degli alberi gli sfuggivano dalle mani. Nella frustrazione di Tantalo si nasconde uno dei virus del pensiero estremo e del fanatismo.
tratto da Liberalquotidiano.it del 16 ottobre 2012