Il Diego Patchen protagonista di Un anno nella città lineare è uno scrittore di fantascienza che fatica a sbarcare il lunario. Fra quella prima storia e La principessa della giungla lineare Paul di Filippo ha fatto trascorrere duecento anni, e ha reso lo scrittore un mito ben al di là di ogni suo sogno d’imperitura memoria. I riferimenti ai suoi romanzi dai titoli improbabili non si contano, e compaiono in talmente tanti contesti da dare la certezza che lo scalcagnato autore/protagonista del primo romanzo sia davvero diventato un mito nel secondo.
Lì avevamo scoperto la città lineare, infinita e insondabile, con l’Altra sponda e il Lato sbagliato dei binari dove finiscono i corpi di chi è morto. Il primo romanzo aveva modellato un mondo incredibile e ce lo aveva narrato nella sua quotidianità, come se non fosse stata possibile l’esistenza di nulla di diverso. Questo mostra una discontinuità là dove la città inaspettatamente e inspiegabilmente si interrompe, spazzata via da una rigogliosa giungla. Proprio per spiegare l’inspiegabile parte una spedizione scientifica, capeggiata da due studiosi di polipolisologia (sì, avete letto bene!) dalle credenze diametralmente opposte.

Certamente i nomi mi hanno fatto perdere parte del divertimento distraendomi dal testo, e per un po’ mi sono chiesta che razza di storia stessi leggendo. Alla fine tutto quadra, anche con Un anno nella città lineare Di Filippo era riuscito a costruire una buona storia che saliva di livello nel finale. Lo stesso tipo di meccanismo è in atto anche qui, all’inizio si scivola nella quotidianità accademica, anche se pure qui c’è chi ha problemi con la giustizia, per poi avere un finale in crescendo.
Il libro mi è piaciuto un po’ meno rispetto al precedente, non so se perché la magia della scoperta della città era scomparsa e i problemi di Merrit mi parevano poco significativi o per il semplice intoppo dei nomi. Una lettura piacevole anche se non eccezionale.
