Paura
dei Manetti Bros
Italia 2012
Sinossi
Ci sono occasioni nella vita che sarebbe meglio non cogliere. Marco, Simone e Ale sono amici da un sacco di tempo, vivono tutti in un quartiere nella periferia di Roma dove non succede mai niente. I ragazzi si ritrovano in mano le chiavi di una bellissima villa fuori città. E’ la villa del Marchese Lanzi, che sarà via per tutto il fine settimana. Il Marchese è un tipo strano, un ricchissimo collezionista d’auto d’epoca, cliente dell’officina dove lavora Ale. I tre ragazzi non resistono e si tuffano senza limiti nel lusso della villa. Ma c’è un’unica cosa che non dovrebbero fare: andare in cantina.
Commento
In Italia non si girano più film horror e di fantascienza, e quando per miracolo capita, di solito vengono massacrati dalla critica.
Questo avviene immancabilmente da anni, e continua a succedere. Credo che dipenda un poco anche dal DNA italiano, che porta molti dei miei compaesani a piangersi addosso, a fare i nostalgici incattiviti, e a non guardare mai al futuro.
Ai Manetti bros va indubbiamente riconosciuto il coraggio di provarci a ripetizione, e di metterci, con alterne fortune, un certo grado di bravura e di ingegno.
Ingegno che richiama alla memoria il cinema di genere degli anni ’70 e ’80, che molti definiscono (non a torto) artigianale. Andrebbe poi aggiunto che era un cinema sì gustoso, ma anche ricchissimo di plagi e di b-movie composti da scene, musiche e atmosfere rubate dai cult movie d’oltreoceano.
Questo Paura, uscito nel 2012, si rifà a quella stagione. Alla stagione dei Fulci e dei Bava, ma anche dei Margheriti e dei Bruno Mattei.
La storia è un classico, un horror slash senza elementi soprannaturali, bensì basata sul classico maniaco omicida, che qui veste i panni di un insospettabile marchese della provincia romana. Questo ruolo spetta al bravo Peppe Servillo (fratello d’arte), che non sfigura affatto in ruolo per lui del tutto insolito.
Per il resto la regia dei Manetti si distingue per il solito rincorrersi di scene volutamente cupe, spesso frenetiche, alternate da momenti di accurata costruzione del meccanismo della tensione. Il tutto è incorniciato in una soundtrack che alterna del metal pesante (che personalmente ho trovato al limite dell’insopportabile), alle classiche musiche d’atmosfera.
Il difetto principe di Paura è che non rappresenta nulla di nuovo né di originale nel panorama italiano. Figuriamoci in quello internazionale.
Sembra un film fuori tempo massimo, un b-movie strappato di peso agli anni ’80 e regalato a un pubblico, quello degli amanti dell’horror, che oramai è settato su ben altre suggestioni, derivanti da tradizioni avanguardiste. Penso a quella francese, a quella spagnola, ma anche a tanti prodotti di nicchia scandinavi.
Paura è il classico film che, a vederlo o non vederlo, non cambia nulla. Non è da bocciare in toto, perché comunque è girato per benino (pur senza eccellere) ed è comunque una buona novità nel panorama italiano, fatto da commediole insipide, tutte uguali.
Il coma irreversibile del cinema di genere italiano, in fondo, è tutto qui: il non saper proporre qualcosa di diverso, di nuovo. Potrebbe pescare nel folklore locale, ricchissimo, invece butta sul piatto il solito slasher standard ai cliché del filone.
L’unico regista che si distingue è Lorenzo Bianchini, che però appartiene all’underground, e che fatica a emergere, come meriterebbe.
Perciò, al momento, ci teniamo Paura e pedalare.
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