Paura (1925, tit. or. Angst) mi riporta ancora una volta al mio (ormai essenziale) Stefan Zweig. In questo racconto di un centinaio di paginette, l'autore condensa una storia e delle emozioni, ma ancor più dei sentimenti, che altri avrebbe forse dilatato all'infinito. Con una terza persona cesellata fino alla più totale intimità, talvolta in grado di stupire il lettore che crede di trovarsi di fronte a un io narrante, l'autore ci porge un'anima e un mondo in balia dell'imprevisto.
Per certi aspetti, il meccanismo non è dissimile da quello del recente Lettera di una sconosciuta e Stefan Zweig conferma la sua maestria nell'orchestrare la solitudine delle voci femminili nella Vienna del primo Novecento (con l'uomo guida, sì, ma sullo sfondo). Ma qui si sente più la voce dell'autore, che gestisce tempi narrativi e soprattutto le diverse e sfaccettate temperature del racconto. Non c'è l'assolutezza composta e dignitosa della passione di Mendel dei libri, ma rispetto a quel racconto c'è una differenza prospettica importante: dietro Mendel crolla un mondo, quello che poi l'autore racconterà nella sua straordinaria autobiografia, dietro Irene Wagner crolla una vita, con il suo particulare.
Non si creda, in ogni modo, che questo suo particulare sia ininfluente: Paura sembra anzi un'ode al recupero delle piccole cose, della gioia familiare, contro i turbamenti di una donna donna a cavallo tra la voluptas vivendi et moriendi di Emma Bovary e la colpa e la vergogna di un Raskolnikov (non a caso, il marito di Irene è un legale e il fantasma di un'istruzione giudiziaria invade l'immaginario fedifrago della moglie). In cerca di una maggiore felicità, ma senza eccedere, senza smontate le apparenze di un olimpico senso della misura, a suo agio in una relazone annoiata e, tutto sommato fredda, con
una fiera superba, ma dietro le sbarre delle buone maniere,
Da quando conosceva il pericolo, e con il pericolo un sentimento vero, aveva di colpo cominciato a percepire che qualsiasi cosa, anche la più estranea, le era affine. In tutto si ritrovava: e il mondo, prima trasparente come vetro, divenne all'improvviso uno specchio grazie alla macchia scura della sua ombra. Ovunque volgesse lo sguardo e tendesse l'orecchio: ecco d'improvviso la realtà.