Lavoro ormai da 10 anni e ho imparato un po’ a conoscere i miei pazienti. Non voglio peccare di presunzione ma solitamente già dalla prima chiamata riesco a farmi un’idea di come si svolgeranno i colloqui. Oggi vi parlerò di una tipologia di pazienti che ho pensato di definire “migranti“.
Il paziente migrante è colui che deve risolvere in tutta fretta un problema (suo o di altri). Non gli interessa definirne i confini: deve trovare un professionista che velocemente gli spiani la strada eliminando l’ostacolo. E se il terapeuta che ha contattato non è “connivente” con questo suo modo sbrigativo di risolvere le cose, “migra” da un altro professionista lasciando bruscamente in sospeso quanto iniziato con il precedente.
A titolo esemplificativo vi racconto due casi.
Il primo è quello di Gennaro. Viene in studio da me segnalandomi che dovrei vedere Jessica, la figlia sedicenne, perché da qualche tempo la situazione in casa è ingestibile. Quando chiedo qualcosa di più, mi segnala che lui e la moglie litigano frequentemente e sono spesso in disaccordo sulle regole da dare alla figlia che, di conseguenza, approfitta della cosa per rivolgersi al genitore più “malleabile” e farla franca. La mamma, che tra i due partner è la più rigida, entra in conflitto con il marito perché non si sente sostenuta ma delegittimata nella sua autorità. Il papà è dunque in una posizione “di mezzo”, tirato tra le due donne di casa che ne richiedono l’appoggio.
Mi sembra evidente che il “problema” non sia di Jessica e suggerisco un incontro con la coppia genitoriale per aiutarli a trovare una comune linea educativa. La proposta viene immediatamente rifiutata da Gennaro perché, a suo dire, la moglie non crede di averne bisogno. Mi viene invece chiesto di occuparmi della ragazza che “vorrebbe tanto sfogarsi con qualcuno”. Dinanzi ad una chiusura così netta e senza possibilità di trattativa, accetto di vedere Jessica. Ed è proprio nel secondo incontro che la giovane mi dice di essere già stata da un’altra psicologa, un anno prima. Non ricorda bene il motivo per cui i suoi genitori l’avevano condotta lì ma ricorda con precisione che dopo due incontri avevano interrotto il percorso terapeutico.
Quando il colloquio con Jessica finisce, ad attendermi in sala d’attesa ci sono i suoi genitori. Mi chiedono se è il caso di fissare altri incontri con la figlia e, prima che io possa dare una risposta, la guardano chiedendole “Hai ancora bisogno di venire qui?”. Jessica ovviamente si sente molto in imbarazzo e mi guarda smarrita. Rendendomi conto di avere a che fare con pazienti migratori, ribadisco di non percepire una situazione di pregiudizio per la ragazza e che rimango a disposizione qualora decidano di riprendere il percorso (o di cominciarne uno come genitori). Sono quasi sicura che tra qualche tempo il signor Gennaro contatterà un collega che possa “riparare la figlia” con una seduta…e il gioco ricomincerà da capo.
Valentina, impiegata 34enne. Mi contatta chiedendomi un incontro entro il giorno successivo e rimane un po’ delusa quando, agenda alla mano, riesco a proporle un appuntamento solo tre giorni più tardi. Giunta in studio, mi segnala di non riuscire più a prendere un treno o un aereo perché si sente soffocare. Tre mesi prima ha avuto un attacco di panico in treno e da quel momento non è più riuscita a prendere né quel mezzo di trasporto né mezzi analoghi dai quali non potesse decidere di scendere in qualsiasi momento. Ha contattato un terapeuta con il quale ha intrapreso un percorso ma, non avendo ottenuto dei risultati, ha deciso di sospendere: così contatta me. Saltuariamente ha anche assunto dei farmaci prescritti dal medico di famiglia ma avvertiva un senso di sonnolenza che l’ha portata a sospenderli. Ad un certo punto la domanda: “Dottoressa, riuscirò a risolvere il problema entro 3 settimane? Sa, devo affrontare un importante viaggio di lavoro e voglio essere sicura che il percorso terapeutico questa volta funzioni!”. Faccio notare che la psicoterapia non è magia, che forse avrebbe avuto senso dare un po’ più di fiducia al terapeuta precedente e che in ogni caso farò del mio meglio per aiutarla…ma con il tempo necessario. Ho fissato un altro incontro con Valentina ma so bene di avere a che fare con una paziente “migrante” e mi aspetto che prima o poi possa spiccare il volo…
Qual è il tempo necessario per una psicoterapia, mi chiederete? E’ il tempo che serve a un individuo per tirarsi su le maniche e lavorare duro al fine di produrre un cambiamento. Lo psicoterapeuta è solo il catalizzatore del processo…colui che innesca il meccanismo. Utilizzando una metafora automobilistica, il terapeuta accende il motore e il paziente guida l’auto. Spesso invece capita che ci si rivolga al professionista dandogli le chiavi del veicolo e chiedendogli di guidare al proprio posto. Se poi non guida come ci si aspetta, lo si fa scendere e si chiama un altro pilota.
Ma nessuno, come il proprietario, conosce bene la propria vettura e può condurla al meglio…