Magazine Cultura
Pazuzu - Ali sull'abisso di Danilo Arona
2° parte
4. Identikit Ecco come lo scrittore William Burroughs apre il suo libro Le città della notte rossa:
“Questo libro è dedicato agli Antichi, al Signore delle Abominazioni Humwawa, il cui volto è una massa di budella, il cui alito è il lezzo del letame e il profumo della morte, Angelo Oscuro di tutto ciò che è escrezione e corruzione, Signore della Decomposizione, Signore del Futuro, che viaggia su un sussurrante vento del sud, a Pazuzu, Signore delle Febbri e delle Pestilenze, Angelo Scuro dei Quattro Venti con i genitali putrefatti, la cui bocca affilata ulula sopra le città atterrite, a Kutulu, il Serpente Addormentato che non può essere evocato, agli Akhkharu, che succhiano il sangue degli uomini perché vorrebbero diventare uomini, ai Lalussu, che infestano i luoghi degli uomini, a Gelat e Lilith, che invadono i letti degli uomini e i cui figli sono partoriti in luoghi segreti, a Addu, evocatore di tempeste che possono riempire il cielo notturno di chiarori, a Malah, Signore del Coraggio e della Temerarietà, a Zahgurim, il cui numero è il 23 e che uccide in modo innaturale, a Zahrim, guerriero tra i guerrieri, a Itzamna, Spirito delle Nebbie Mattutine e degli Acquazzoni, a Ix Chel, la Ragnatela-Che-Prende-la-Rugiada-del-Mattino, a Zuhuy Kak, Fuoco Vergine, a Ah Dziz, il Signore del Freddo, a Kah U Pacat, che lavora nel fuoco, a Ix Tab, Dea delle Corde e delle Trappole, patrona di coloro che s’impiccano, a Schmuun, il Silenzioso, gemello di Ix Tab, a Xoloth l’Informe, Signore della Rinascita, a Aguchi, Signore delle Eiaculazioni, a Osiris e Amen in forme falliche, a Hex Chun Chan, il Pericoloso, a Ah Pook, il Distruttore, al Grande Vecchio e alla Bestia Stellare, a Pan, Dio del Panico, agli innominati dei della dispersione e del vuoto, a Hassan I Sabbah, Signore degli Assassini”.
Cosmogonia delirante di uno dei più grandi visionari del secolo o criptico elenco da decifrare (ma che in ultima analisi null’altro esprimerebbe che i molti volti di un unico, smisurato archetipo maligno), l’invocazione di Burroughs è documento di estremo interesse, in quanto buona parte dei demoni citati proviene dall’alveo mesopotamico e Pazuzu occupa una seconda posizione, preceduto solo dal ributtante Humwawa, che peraltro è un suo parente più che prossimo. Ma, per quanto possibile, procediamo con ordine.
William Burroughs I reperti archeologici ritraenti Pazuzu, giunti sino a noi, risalgono tutti quanti all’epoca assira, sviluppatasi tra il 1100 e l’anno 612 a. C., che vide la caduta di Ninive. Tutti quanti sono compresi tra il nono e l’ottavo secolo e dovrebbero quindi esprimere appieno le caratteristiche di una società feroce e contraddittoria. L’impero assiro passa, infatti, alla storia per l’efferatezza e la crudeltà con cui impone il suo dominio, distanziandosi profondamente dalla generale mitezza del diritto antico orientale. La grande arte assira è quindi strettamente legata a quel che avviene sui campi di battaglia. E’ un’arte prevalentemente profana, che tende a celebrare i successi del regime militare, illustrando la vita e la gloria dei re, sempre dominatori e vincenti nella caccia agli animali selvatici o ferocissimi tanto durante le battaglie quanto nelle devastazioni delle città nemiche. Uomini e animali sono raffigurati con grande potenza ed energia. Ma, mentre la figura umana non sfugge allo schematismo proprio di tutto il mondo antico, e l’anatomia potente, i muscoli tesi, la prestanza fisica dei re e dei loro guerrieri hanno sempre molto di convenzionale e “congelato”, l’artista assiro è formidabile nella rappresentazione degli animali, resi con forza e insieme con una naturalezza, che non ha eguali in tutto il mondo antico. Ora è il leone che esce dalla gabbia, circospetto, fiutando l’aria. Ora sono i molossi, tesi e inquieti al guinzaglio dei servitori, all’alba, alla partenza per la caccia. Le fasce dei muscoli in perenne tensione, una violenza che è sempre nell’aria. I leoni trafitti, provenienti dai bassorilievi del Palazzo di Ninive ed esposti al British Museum di Londra, sembrano librare nella loro agonia un’immane potenza che gonfia loro i muscoli sino allo spasimo, quasi che la morte imminente altro non sia che un passaggio ad un’ulteriore dimensione di “forza”.
Bassorilievo assiro della caccia al leone - Rovine di Ninive (Mosul, Iraq) British Museum
Una siffatta società dovrebbe essere teoricamente concreta, essenziale e materialista. Ma il primo paradosso è che le più grandi e famose opere d’arte di tutto il ciclo mesopotamico appartengono proprio al periodo assiro. E il secondo, non meno importante, è che gli Assiri erano, certamente più nel privato che nel pubblico, ossessionati dalla dimensione magica della vita, quasi ai limiti della paranoia. Un discreto scheletro nell’armadio per un popolo di feroci guerrieri. Però è così. Astrologi e maghi erano al lavoro ventiquattro ore su ventiquattro tanto al servizio dei potenti quanto dei meno abbienti. Presagi ed incantesimi propiziatori formano più della metà dei testi religiosi che ci sono pervenuti, quasi a suggerire l’estrema identificazione tra magia e religione, soprattutto nella pratica quotidiana. Fu un mago che supervisionò l’inaugurazione dei lavori d’irrigazione intrapresi dal re Sennacherib nella vallata del Gomel. Furono i sogni interpretati dagli astrologi che decisero le campagne belliche di Assurbanipal.
In un contesto del genere, la divinità – benefica o malefica – era un costante punto di riferimento. Da pregare, da evitare, da abbindolare e da temere, perché, sempre e comunque, causa scatenante o concomitante di ogni evento, doloroso o propizio. Così in Assiria dilagarono amuleti e talismani. Molti riti magici avevano già dimostrato la loro potenza contro i demoni nelle epoche precedenti. Ma non era pensabile di poter esercitare di continuo attorno alle persone o alle cose che s’intendevano proteggere dagli attacchi demoniaci una celebrazione ininterrotta di tali riti. Gli amuleti risolsero la questione. Attaccati sulle porte delle case, seminascosti nel sottosuolo attorno alle medesime o portati al collo, gli oggetti prolungavano ad libitum gli effetti benefici dei rituali.
E’ da queste situazioni che provengono i reperti su Pazuzu. Per la maggior parte si tratta di statuine alte di non più di quattordici-quindici centimetri, recanti un anello nella parte superiore della testa – o, in qualche caso più raro, con la testa forata - e che suggeriscono l’uso ornamentale, a mo’ di collana, che in Iraq, tra l’800 e il 600 a .C., andava, per così dire, “di moda”. Pazuzu, un protettore, “il male contro il male”, come scritto da Blatty nelle prime righe de L'esorcista. Pazuzu che proteggeva dalle malattie e dalla morte improvvisa, in modo particolare i bambini. Può essere possibile?
Statuetta in bronzo di Pazuzu - Epoca neo assira VIII -VII sec. A.C. - Parigi Museo del Louvre
Al British Museum, sotto la testa in bronzo del demone, si legge che gli Assiri, soprattutto nell’ottavo secolo, utilizzavano Pazuzu per proteggere bambini e neonati dall’attacco di Lamashtu, uno dei più orridi rappresentanti degli Utukku, di cui parleremo in seguito. Lamashtu è un’interessante figura di demone femminile, tradizionalmente considerata una delle tante personificazioni di Lilith, anche se recenti correnti interpretative tendono a porre una netta distinzione tra le due figure. Demone notturno per eccellenza, a lei veniva imputata l’improvvisa morte del neonato, la cosiddetta “morte in culla” battezzata dalla medicina contemporanea come SIDS (acronimo che sta per Sudden Infant Death Syndrome) che pare fosse in Assiria una piaga diffusissima. Così traduciamo un’iscrizione che la riguarda su una tavola d’argilla dell’ottavo secolo a.C.:
«Lei è furiosa, feroce e misteriosa. Possiede un terribile fascino, come si conviene ad una lupa sorella di Anu. Quando lei si avvicina, si è colpiti dall’itterizia, dalla febbre, dalla pazzia e da una sete insaziabile. Le sue zampe sono come quelle di Anzu, le sue mani sono immonde e sudicie, il volto è quello feroce di un leone infuriato. Lei arriva sopra la coperta del tuo letto, sfiorandoti con i suoi capelli, e la strappa via. Lei segue le orme del tuo bestiame, come il cane quello delle pecore. Giunge davanti alla tua porta, strisciando come un serpente, con le mani sporche di carne e di sangue. Lei entra in casa come vuole e se ne va quando vuole.»
Lamashtu è veramente orribile a vedersi. Oltre alla testa di leone, con zanne sporgenti e minacciose, si notano altri elementi: i serpenti tenuti con forza in ogni mano, gli artigli da uccello rapace, la posizione che la ritrae sopra un asino “usato” quasi come una tavola sull’acqua e la corsa trasversale inginocchiata, non visibile in tutte le immagini, la cosiddetta knielauf, ovvero la rappresentazione del volo, che potrebbe essere tale o soltanto una corsa trasversale d’inseguimento predatorio. Ultimo particolare raccapricciante: Lamashtu allatta, nella sua immagine più famosa, con seni flaccidi e avvizziti due animali ben identificabili come un cane ed un maiale, il che la ricollega al tema della “negazione dell’infanzia”. Bene, Pazuzu era in Assiria il vero, grande baluardo contro Lamashtu. Al punto che gli amuleti che lo ritraevano erano portati al collo dalle donne incinte (Lamashtu, con il suo fiato pestilenziale, era pure in grado di provocare aborti) e dalle puerpere, venivano collocati sui letti dei neonati durante i primi nove giorni di vita, oppure erano infissi direttamente sulla porta di casa, non solo per proteggere bimbi e adulti dai malevoli attacchi di Lamashtu, ma per generare efficacia contro il flagello dei venti caldi di sud-ovest. Un vero paradosso a dir poco, data l’iconografia tradizionale su Pazuzu.
Lamasthu Il fatto è che Pazuzu non appartiene in realtà alla cultura Assira, sebbene i reperti sembrino confermarlo. Ma la sua origine si situa, secondo noi, nella protostoria Sumerica. Vediamo di districarci tra le diverse letture che studiosi ed orientalisti hanno prodotto sul dio alato. “Io sono Pazuzu, figlio di Hampa, il re dei perfidi spiriti dell’aria, che escono con violenza dalle montagne, menando strage”. Così traduciamo da un antico e minaccioso scongiuro contro Labartu (un altro nome che indica Lamashtu), nel quale veniamo a conoscenza che Pazuzu ha un padre che in altre fonti è chiamato Harbu. Un demone, un demone ibrido, all’apparenza nel senso più classico del termine, quello che indica il demone come l’essere intermedio tra la suprema divinità e gli uomini, sui quali può esercitare influenza buona o cattiva, secondo i casi. Un corpo possente, uccelliforme e rettiloide al contempo, in cui trovano albergo l’aquila, il leone, lo scorpione e lo sciacallo. Immagini, simboliche e non, che pescano contemporaneamente dalla mitologia come dal quotidiano. Soprattutto a proposito del quotidiano, il vento sudoccidentale che rappresentava per il contadino assiro-babilonese il terrifico presagio di futuri terreni incolti e desolati, ovvero fame, inedia e disperazione.
Nel suo libro The Domain of the Devils* , lo studioso Eric Marple descrive Pazuzu come la più terribile di tutte le entità demoniache della Mesopotamia, avendo il potere di spargere le malattie più ripugnanti unicamente “per mezzo del suo alito ardente e asciutto”. Il demone “ha come testa il cranio pressoché privo di carne di un cane”, secondo Marple rappresentazione puntuale della morte per inedia o per grave malattia. William Woods, nella sua A History of the Devil** , scrive che “in Mesopotamia il demone Pazuzu viaggia con il vento e trasporta la malaria, guadagnandosi il titolo di signore delle febbri e delle pestilenze”, adombrando un’identificazione tra Pazuzu e il drago volante Typhon (Tifone, il padre della Chimera), “angelo dei venti mortali” identificato con la malattia tifoide. In altre fonti, Pazuzu è definito come “uno dei sette demoni di Babilonia”, attribuzione che può lasciare il tempo che trova, dato che nell’antica cultura mesopotamica il numero 7 ha valore d’innumere, cioè d’infinito. Demoni altrove identificati come le sette calamità che mostrano particolare predilezione per il genere umano: la tempesta, il diluvio, la siccità, il terremoto, la guerra, la malattia e la morte. Andando ancora a caccia di analogie, possiamo ricordare come nel Vecchio Testamento una descrizione del diavolo lo vede come una creatura nera e pelosa, un cacciatore dei terreni incolti del deserto. E, ancora, come il vento ed il deserto si ritrovino appaiati nel concetto egiziano di Set il distruttore, rappresentano come un cane di specie ignota, non molto differente da quell’altro abitante delle dune che è lo sciacallo, così come in quello di Djinn, il cui nome significa “gli oscuri, coloro che si nascondono”, spesso e volentieri, sotto la sabbia. Ma Pazuzu, per quanto unico, non sarebbe da solo. Egli farebbe parte di un particolare gruppo chiamato – ancora magicamente - “I Sette”, abitatori del mondo degli Inferi, che il noto antropologo Alfonso di Nola*** definisce come “i messaggeri di Era (o Erra), il dio della peste, la cui designazione numerica sembrerebbe indicare talvolta come i demoni in generale e non una precisa classe di demoni, secondo il succitato valore di innumere, di “infinito” dato nelle lingue semitiche, perciò non necessariamente questi sette sono gli stessi designati come “demoni di Babilonia” (altre fonti citano, ad esempio, i “sette servitori del demonio”, ma gli elenchi ed i nomi dei demoni menzionati differiscono di solito). Ma chi sono i “sette”? Per Di Nola sono i ben noti Utukku, (anche se lo stesso nome lo troviamo usato spesso più genericamente a definire gli spiriti senza pace assetati di vendetta o addirittura, in certe fonti, come progenitori dei successivi vampiri): Gallu, Lilu, Alu, Lamashtu, Etimmu, Rabitsu e, naturalmente, Pazuzu, tutti quanti ibridi sino all’estremo fino a presentarsi, come Alu, con caratteri androgini. Tutti quanti legati al concetto della malattia e della paura. Secondo l’orientalista Richard Mac Laughlin, sarebbero stati in realtà i Babilonesi a creare il concetto degli Utukku, mutuandolo dall’Udug (termine che significa genericamente “cattivo”) dei Sumeri. E tre sarebbero le categorie principali: gli Etimmu, già compresi nell’elenco del Di Nola e che sono coloro che ritornano in vita se per caso chi la ha uccisi partecipa al loro funerale; gli Shedu, i giganteschi guardiani dei templi e dei palazzi reali, con il corpo da toro o da leone, le mani da uomo e ali gigantesche; infine gli Arallu (in lingua babilonese, Arallu indica anche il regno dei morti), cioè coloro che seminano il crimine, la malattia, la guerra e la discordia familiare. Tanto impudenti questi ultimi da spingersi ciclicamente ad attaccare gli Dei, soprattutto Sin, il dio della luna, colui che tra i Sumeri, con un curioso cambio di sesso, era conosciuto anche come la dea Nanna. Quando gli Arallu gli tendono un’imboscata e lo buttano in un sacco, Sin è chiaramente costretto ad assentarsi, ed ecco spiegata in modo comprensibile a chiunque il fenomeno dell’eclisse lunare. Gli Arallu sono immortali, originati dalla bile di Ea, cioé dall’acqua stagnante nella profondità della Terra. Hanno il corpo di uomo, la testa e le zampe del leone, ali immense e piccole corna a punta. Il loro nome assiro, per Mac Laughlin, è Pazuzu. Ed i Pazuzu, assolutamente potenti, quasi invincibili, hanno la possibilità di possedere i corpi umani e di essere esorcizzati. La Chimera di Arezzo Come tipologia, Pazuzu è un tipico “mostro-chimera”. Dal nome del mostro, il cui padre fu Tifone, che Woods adombra come lo stesso Pazuzu e il cui corpo gigantesco culmina in cento teste di drago. La Chimera, nel mito classico, giace relegata sotto una delle isole vulcaniche della nostra terra (Ischia o la Sicilia), ancora fremente della rabbia che la portò un giorno a sfidare gli dei, a cacciarli dall’Olimpo e a ferire Zeus. Sua madre fu Echidna, la vipera, per metà donna bellissima e per metà orribile serpente maculato. Viveva in un antro delle terre di Lidia, cibandosi della carne degli sventurati viaggiatori. Chimera è solo uno degli esseri mostruosi generati da Tifone ed Echidna. Suoi fratelli furono Cerbero, cane infernale dalle tre teste, la famosa Idra uccisa da Ercole, e Ortro, feroce cane a due teste guardiano delle mandrie del gigante Gerione. Chimera, come Pazuzu, è la personificazione della Tempesta e la sua voce è il tuono. Molte e diverse sono le rappresentazioni iconografiche del mostro leggendario. Come appare evidente, la localizzazione di Pazuzu è tutt’altro che facile. Il pantheon mesopotamico, brulicante poi com’è di demoni e divinità che cambiano sovente nome da una civiltà all’altra, è solo una difficoltà in più. Prendiamo, come ulteriore esempio di queste forche caudine, il menzionato “mistero” degli Utukku. E’ un nome che troviamo indifferentemente usato, come già detto, tanto per indicare una particolare categoria di spiriti maligni, capaci di uccidere i viventi con il solo sguardo, quanto per i demoni tout court, al punto che viene da pensare che il nome stia a indicare qualsiasi manifestazione soprannaturale da cui provengono, soprattutto in una società come quella assira, “tutte” le disgrazie della vita. Muttabriqu, colui che manda il fulmine; Sarabda, colui che punisce gli errori; Tirid, colui che caccia; Bennu, colui che manda le convulsioni; Sidana, il procacciatore di vertigini; Miqit, l’ingiuria e le percosse; Umma, la febbre alta; Libu, la scabbia. Tutti sono Utukku, perché Utukku è il Male in assoluto, inarrestabile da qualsiasi ostacolo, invisibile o serpentiforme quando così vuole essere, oppure con testa animalesca, zampe di uccello e grandi ali grifagne, come Pazuzu e la sua parentela piuttosto assortita. Utukku, quindi, sono anche gli Etimmu, già compresi nell’elenco dei “sette” del Di Nola, spiriti di persone defunte incapaci di ritrovare la pace e, secondo parecchie fonti, antesignani dei vampiri. Spettri che portano un “vestito di ali”, il che fa pensare alle raffigurazioni dell’anima-uccello. Il nome deriva da una radice che significa “portar via, sollevare” e che suggerisce come l’azione degli Etimmu fosse quella di rapire gli uomini per poi ucciderli. Parecchi sono i modi per i quali un defunto può trasformarsi in Etimmu. Tra i più curiosi: morire prima di aver terminato di fare l’amore, una sepoltura sbagliata, la morte per annegamento, d’inedia, per improprie libagioni, durante l’offerta di cibo e, per le donne, durante la gravidanza. Tutte notizie riportate in formule magiche contro gli Utukku, chiamate “Utukki Limmuti”, trovate su tavolette cuneiformi che gli scribi assiri nell’800 a. C., all’incirca, ricopiarono dagli originali di Babilonia. Infine, curiosità etimologica, il nome Utukku deriva da Utu, figlio di Nanna e di Ningal, fratello di Inanna. Dio del Sole e della giustizia, andava negli Inferi alla fine di ogni giorno e lì decretava il destino dei morti. La madre Nanna, dea della Luna, è una deità di centrale importanza in seno alla prima civiltà dei Sumeri, costituendo la personificazione essenziale di un religioso e mistico dramma che ha avuto luogo intorno al 3000 a. C. tra le paludi e i deserti della Mesopotamia. Perché non sono pochi coloro che sostengono che, con il culto della Luna, Nanna, nacque la paura del Male, l’Utukku più in generale, ma Pazuzu, più in particolare. E stiamo parlando della protostoria sumerica, ad oltre duemila anni di distanza dall’impero assiro, di cui testimoniano i reperti archeologici del demone alato. Dall’impasse temporale si esce unicamente accettando l’idea che colui che nella mitologia convenzionale è stato demonizzato come Pazuzu sia in realtà presso i Sumeri quella deità chiamata Anzu, divenuta poi Zu con l’impero babilonese. La descrizione sumerica di Anzu è quanto mai sospetta. Demoniaco e orribile, con zampe di leone, testa e artigli di aquila, con la pelle scagliosa ed il becco a sega, Anzu, oltre ad assomigliare notevolmente a Pazuzu, è potentissimo al punto da diventare guardiano della Soglia di Ellil e da trafugare le Tavole del Destino, in uno dei miti più famosi della Mesopotamia. Dette Tavole conferiscono un enorme potere a chi le possiede e nessuno, tra gli Dei, si sente in grado di recuperarle. Nella versione sumerica se ne incarica Ninurta che uccide Anzu con una freccia. In quella babilonese, divenuto Zu, il dio-uccello nemico degli dei è abbattuto dal re Lugalbanda, padre di Gilgamesh, mentre in quella assira l’eroe che schiaccia il teschio del mostro è Marduk. Curiosità non da poco: in altre fonti, Zu è descritto anche come “mezzo uomo e mezzo pesce”, come se fosse un Dio fondatore, e il suo mito ricorda assai da vicino quello di Garuda, il mitico uccello divino dell’India che ruba in cielo la sacra bevanda amrita e che, nelle raffigurazioni tradizionali, è molto simile a Pazuzu.
L'articolo continua nella prossima puntata.
Note:
* Eric Marple, The Domain of the Devils, Barnes & Co., South Brunswick, 1966.
** William Woods, A History of the Devil, Putnam Group, New York, 1974.
**** Alfonso M. Di Nola, Il Diavolo, Newton Compton, Roma. 1999. Profilo dell'autore
Danilo Arona: Scrittore, giornalista, saggista, è uno dei maestri della letteratura horror italiana. Ha pubblicato diversi romanzi tra i quali: Ritorno a Bassavilla (Edizioni XII) L'estate di Montebuio, (Gargoyle Books) Santanta (Perdisa), Palo Mayombe 2011 (Kipple), Malapunta (Edizioni XII), Rock I Delitti dell'Uomo Nero (Edizioni della Sera), Bad Vision (Urania-Mondadori), Finis Terrae (Segretissimo Mondadori), La Croce sulle labbra insieme a Edoardo Rosati (Segretissimo Mondadori), Onryo. Avatar di Morte (Urania-Mondadori) antologia curata insieme a Massimo Soumarè. Al suo attivo anche molti racconti, inclusi in diverse antologie (Bad Prisma- Epix Mondadori) articoli e saggi, tra i quali Gli Uccelli di Alfred Hitchcock e L'alba degli Zombie (Gargoyle Books) : http://www.daniloarona.com/
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