Anno: 2014
Distribuzione: Officine Ubu
Durata: 128′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Grecia, Francia, Belgio
Regia: Panos H. Koutras
Data di uscita: 28 Agosto 2014
“Una nuova odissea greca” recita il sottotitolo di Pazza idea (Xenia), il quarto lungometraggio del greco Panos H. Koutras, e ciò fa subito presagire l’importanza che la dimensione del viaggio e della ricerca riveste nel film. Due fratelli, Danny e Odysseus, albanesi di origine, ma entrambi nati e cresciuti in Grecia, vivono la paradossale situazione di sentirsi stranieri nel proprio luogo di nascita (il problema dello ius soli), e da questa premessa prende corpo tutta la critica sociale che il regista mette in scena, stigmatizzando, tra l’altro, la crescita dei movimenti di destra nel paese, che, nel film, si producono in raid punitivi ai danni di immigrati e omosessuali, facendo riemergere la problematica del rispetto delle minoranze.
Danny è infatti smaccatamente omosessuale, e vive sulla propria pelle un’intolleranza dalla quale cerca di smarcarsi attraverso un immaginario alternativo, una lente emotiva che rielabora, fino a deformarla, la realtà, percepita in modo amplificato, come un universo fantastico, a tratti psichedelico, colorato, che si giustappone a quello reale, conservandosi accanto ad esso. I due decidono di muoversi alla ricerca del padre, e in questo percorso l’amore fraterno costituirà la sola vera radice che permetterà ad entrambi di rimettersi in contatto con la propria origine, in un movimento di immedesimazione identitaria avulso da qualsiasi localizzazione o culture specifiche.
Al bisogno di porre uno sguardo realistico sulle questioni dell’immigrazione, delle minoranze, dei processi identitari, Panos H. Koutras riesce a contrappore un immaginario fantastico, particolarmente prolifico, in cui le trovate (e le citazioni) abbondano, e lo sguardo di Danny dovrebbe divenire la prospettiva privilegiata attraverso cui slegarsi dall’insistenza del reale, preparando, in tal modo, uno spazio dove gli oggetti trovino una collocazione alternativa, interrompendo, forse, la catena di “rimandatività”, di significanza.
Chi scrive non ritiene, però, che tale obbiettivo sia stato raggiunto, in quanto l’immaginario proposto non si pone come vera alternativa al flatus vocis delle immagini sub specie spectaculi, anzi, potremmo dire, che ne costituisce la conferma. Le culture pop e gay vengono interamente sussunte sotto l’egida dello spettacolo del capitale, e non si pongono come reale elemento di rottura o critica, e tutto il potenziale eversivo viene neutralizzato in un sentimentalismo (l’amore fraterno) che non possiede una vera forza redimente, ma, tutt’al più, costituisce il momentaneo riparo alla tempesta che incombe.
Lo sguardo del regista è ‘acuto’, nel senso che va ‘oltre’ l’immagine, ma non riesce a fermarsi, come forse dovrebbe, sulla superficie di essa, come avviene nel grande cinema, laddove la poesia consiste proprio nello sfuggire alla logica del simbolo, rimanendo ancorati ad un’immagine che non rimanda ad altro che a se stessa. Ciò non toglie la bontà dell’operazione di accostamento di realtà e fantasia, cui il regista tende: il limite è di non essere riuscito a dare corpo ad una temporalità altra che davvero avrebbe potuto segnalare uno zoccolo di resistenza all’interno del quale custodire una riserva infinita di speranza.
Luca Biscontini