Se qualcuno aveva dei dubbi, se qualcuno pensava di aver votato Ignazio Marino in virtù della sua diversità rispetto al partito di riferimento nel cui seno aveva peraltro vinto le primarie, se lo aveva assimilato ai diversamente Pd, i Pisapia, i Doria etc etc, se ne faccia una ragione, il contagio non lo ha risparmiato. Ci comunica infatti, a comizio avvenuto del criminale riconosciuto e condannato: “Il Campidoglio non ha mai autorizzato un palco per il comizio del Pdl in via del Plebiscito, che è stato montato senza fare alcuna richiesta in comune. Ho informato il Prefetto ed è stata immediatamente applicata una sanzione amministrativa nel massimo ammontare. Domani, smontato il palco, la polizia locale verificherà danneggiamenti alla sede stradale e alla segnaletica e darà notizia di reato alla Procura della Repubblica”.
Eh si, la legalità è un obiettivo intermittente per il partito alleato dell’evasore. O almeno postumo. O comunque secondario. Il comizio non è stato organizzato all’insaputa del sindaco, i promotori non hanno chiesto le necessarie autorizzazioni, per quanto occupato a pedonalizzare Marino avrà avuto contezza di quello che si svolgeva nell’ombelico della Città Eterna, eppure rivendica un suo fermo e autorevole intervento tramite municipale a cose avvenute, a tutela tardiva di decoro e legittimità.
Il sindaco Marino è proprio sulla lunghezza d’onda del Pd e della sua storia, dalla fondazione e da prima, in sintonia con questi vent’anni consumati nell’ipocrisia e nel compromesso. Anni trascorsi nell’evitare di misurarsi con il conflitto di interesse, nella passiva ed interessata contemplazione della progressiva privatizzazione della politica, delle istituzioni, della Costituzione, nella condanna forse invidiosa di vizi privati e nell’indulgenza forse complice per pubblici reati, nel rispetto ammirato di maggioranze conquistate tramite elezioni che sarebbe arduo definire libere, condizionate da un esplicito monopolio dell’informazione, quella proprietaria e l’altra, interamente occupata e assoggettata, fino all’estremo paradosso, quello di trasformare il leader antagonista in fantasma, come in un rito apotropaico, nella speranza di ridurne la pressione e l’influenza non nominandolo, non evocandolo, secondo allusioni indirette, trasversali e risibili. Proprio come nei litigi di strada, quelle pantomime nelle quali i contendenti fanno finta di essere trattenuti dagli amici, altrimenti farebbero una strage. O come nel teatro dei pupi, in quei duelli con gli spadoni di legno o di cartapesta, paladini e infedeli uniti e unanimi nella volontà di mantenere lo stato di guerra apparente, per nascondere la pace complice e interessata.
Non solo Berlusconi cade dal punto che ha fatto la sua fortuna, l’incrocio tra affarismo e politica, tra potenza economica consolidata nell’illegalità e potere politico, da essa alimentato con metodi “non ortodossi”. Si rivela la correità di chi l’ha sostenuto raccomandando l’opportunità di tener separate le questioni giudiziarie da quelle politiche ed è palese l’opportunismo invece di condizionare il ripristino della legalità al mantenimento di quell’osceno equilibrismo dannato, chiamato governabilità. Ed è patetico, per chi ancora ci crede, il tentativo di persuaderci che l’ideologia del malaffare e il suo modello culturale largamente accettato, si combattano con il puntuale o perfino tardivo impiego di vigili urbani, regole e circolari, per non dire con la delega totale all’autorità giudiziaria, quando il loro successo risiede proprio nell’aver imposto e poi resa gradita l’illegalità e la sua tolleranza, come un costume necessario e un’ancora di salvezza in tempi bui, precari, mobili e discrezionali, dove diritti sono ridotti a elargizioni arbitrarie, i doveri un peso insopportabile, la sovranità un onere faticoso. Una volta i cittadini erano incaricati di impedire lo strapotere dei poteri espliciti o occulti attraverso la vigilanza democratica. Adesso ben che vada – e dopo – non ci resta che chiamare i vigili.