Di una tale entità in Italia mancano le tracce. Tralasciando il ruolo dei due partiti-spalla, IdV e SEL, la principale forza politica del centro-sinistra, il Partito Democratico, appare preda di sé stessa e delle sue congenite tendenze masochistiche.
L'apertura di un'indagine a carico dell'ex-ministro Scajola (ci chiediamo se di questo, almeno, sia consapevole) è quasi oscurata dall'altrettanto incresciosa vicenda legata a colui che fino a pochi giorni fa era l'uomo forte del PD lombardo e il braccio destro del segretario del PD Bersani, Filippo Penati. I dettagli che stanno emergendo, e che minacciano di scatenare un precipitoso effetto domino all'interno del partito, disegnano un sistema di malaffare che sembra uscito dalle cronache giudiziarie dei primi anni novanta. Al livello politico, quello che lascia interdetti è l'assoluta mancanza di trasparenza e di chiarezza da parte dell'establishment del partito. Le stesse persone che, giustamente, mostravano indignazione e cavalcavano (non troppo, a dire il vero) le malefatte del premier, adesso balbettano frasi di circostanza di fronte ai microfoni. Una forza politica che intenda anche solo fingere di essere affidabile non può in alcun modo permettersi il lusso di far trascorrere dei giorni prima che il segretario prenda una posizione netta nei confronti del ricorso alla prescrizione da parte di un papavero del gruppo dirigente. Se è vero che la rinuncia alla prescrizione è una scelta personale, il pronunciamento di un partito nei riguardi di un principio alla base di una sana etica pubblica non è un optional. Tanto più in un paese come l'Italia, in cui, purtroppo, il rispetto della legge si configura ogni giorno di più come una virtù anziché come un requisito di base. Il susseguirsi di cinquant'anni di inciuci all'ombra della balena bianca e del ventennio berlusconiano, inframezzati dalla debitamente accantonata parentesi di Tangentopoli, pesano come un macigno sulla credibilità di chiunque si presenti sulla scena politica. Nell'attesa di nuovi sviluppi che illuminino più chiaramente la faccenda, le colpe di Penati non possono ricadere su tutto il partito, ma la responsabilità politica di chi lo ha spinto in alto nella gerarchia di potere interna non può essere accantonata. Anche quando Bersani non fosse a conoscenza di quanto succedeva, la folgorante carriera di questo dirigente evidenzia una totale mancanza di meccanismi che garantiscano la trasparenza e l'onestà di chi, in prospettiva, si candida ad occupare ruoli di potere nelle istituzioni. Con una sana dose di cinismo politico, il partito avrebbe comunque potuto, se non approfittare della situazione, quantomeno rigirare la frittata, mostrandosi compatto su posizioni di assoluto rigore. Prendiamo atto delle rapide dimissioni di Penati dai suoi incarichi istituzionali e della sua decisione di rinunciare alla prescrizione (almeno stando alle dichiarazioni), tardivamente auspicata dalla maggior parte dei pezzi grossi del PD. Tuttavia l'indecisione e il ritardo dimostrati nel rigettare qualunque sospetto di complicità non contribuiscono di certo a rafforzare la fiducia da parte dell'opinione pubblica.
Il caso Penati non è l'unica spina nel fianco. La cronica capacità del PD di non intercettare la volontà e gli umori della sua stessa base elettorale contribuisce ad aggravare lo stato confusionale, come dimostra un altro tema all'ordine del giorno, squisitamente politico: la raccolta firme per il referendum abrogativo del porcellum, la vergognosa legge elettorale in vigore, scritta da Calderoli e da lui stesso chiamata "porcata". Tutto il centro-sinistra, PD compreso, esprime da tempo l'intenzione di abrogarla e procedere al varo di una nuova legge che garantisca almeno un minimo di democraticità alle prossime elezioni. Non appena, però, un'iniziativa di alcuni "prodiani"(con Arturo Parisi in testa) apre la prospettiva di promuovere un referendum per cancellare l'assurdo meccanismo di nomina dei parlamentari e tornare temporaneamente al mattarellum, nella speranza che il prossimo Parlamento partorisca un provvedimento migliore, ecco che ciò che era logico diventa tutt'altro che scontato. In assenza, come al solito, di una presa di posizione netta del partito (che non può che essere favorevole), vari nomi importanti dell'establishment del PD aggiungono il loro nome alla raccolta firme in maniera del tutto soggettiva, ma non per questo meno "pesante", seguendo l'esempio del fondatore, Romano Prodi. Di fronte a un fatto compiuto, anziché ratificare, seppur tardivamente, la decisione apparentemente maggioritaria, il segretario sfodera un capolavoro politico racchiuso nella seguente dichiarazione: "Io non firmo. [...] Appoggio l'iniziativa, ma non la sottoscrivo perché quella elettorale è una legge che deve passare dal Parlamento". Dietro la scelta di Bersani non può non esserci una corrente del partito che evidentemente preferisce non sporcarsi le mani facendo opposizione sul campo, convinta di poter agire a livelli più "nobili", e che considera più proficuo il corteggiamento verso altre forze politiche che la sintonia con il proprio elettorato. Inutile far notare, infatti, come questa decisione sia perfettamente il contrario di ciò che potrebbe avvicinare il PD all'enorme bacino potenziale di elettori che sarebbero pronti a concedere il proprio voto, ma che, al contrario dei dirigenti democratici, hanno le idee chiarissime.
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