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Non ho un gran rapporto con il cinema thailandese di genere, a dire il vero ne conosco gran poco ma, oh, è un gran poco che il più delle volte, tra fiacche pretese di occidentalizzazione, sincere povertà tecniche, inutili e gratuitissimi sfoggi di violenza disumana come unica arma, e matrici folkloristiche ripetitive e narrativamente innocue, mi ha spesso annoiato a morte. Salvo davvero poche cose, su tutto il cinema di Pan-Ek Ratanaurang, che il genere comunque lo tocca solo di sfuggita (l’enigmatico Nymph e il nerissimo Headshot) preferendo una visione molto più trasversale, dolceamara e di spiccata personalità (il capolavoro Last Life in the Universe), e i lavori del buon Banjong Pisanthanakun, che tutti conoscono nonostante sia impossibile pronunciarne e ricordarne il nome, perché tutti abbiamo visto Shutter, suo felice esordio in quell’ondata di fantasmi orientali che una decina di anni fa apriva le nostre porte all’horror asiatico. Pellicola che, come molte di quello specifico quanto primitivo filone, funzionava benissimo all’epoca ma è bene o male inguardabile oggigiorno nonostante sia così recente (anche se bisogna ricordare un finale visivamente notevole): troppi schemi, troppa rigidità, troppi meccanismi già rodati dall’orrore nipponico che Thailandia, Corea, Indonesia e certo stanco Hong Kong tentavano di ricalcare, e poi ovviamente una scarsità di mezzi che ne impedisce un’almeno discreta conservazione. Ma Pisanthanakun, che scriverà e dirigerà ogni cosa in compagnia di Parkpoom Wongpoom fino al 2009, mostrava già piccoli spiragli di personalità che sarebbero poi esplosi del tutto nei notevoli segmenti per i due Phobia e nel piccolo contributo per l’orribile ABC’s of Death, ovvero uno forte senso dell’umorismo capace di unire invenzioni, equivoci e slapstick senza mai risultare sciocchino e ingenuo come capita invece in certi siparietti dei suoi connazionali, e senza mai dimenticare, né usandola solo come mezzo parodistico, una buona componente scary & gore Da lì il passo è breve, Pisanthanakun scioglie la coppia con Wongpoom e dirige un’interessante commedia romantica, Hello Stranger, dove chiaramente fuoriesce la sua anima più solare, per poi ritornare, a tre anni di distanza, con ciò che evidentemente gli piace più fare, ovvero le commedie horror. Cosa che, tra l’altro, deve pure piacere al pubblico, visto che Pee Mak diventa in poco tempo il più grande successo thai ai botteghini.
Pisanthanakun continua infatti quella strada intrapresa con In the Middle e In the End, i rispettivi mediometraggi per il progetto Phobia (non è un caso che ne condivida il cast), e chi la ha visti sa già cosa aspettarsi: ironia sfrenata, spesso folle e al limite del demenziale, ma mai delirante o priva di controllo, bensì tenuta a bada da un’ottima capacità di scrittura, agilissima nello stendere dialoghi lunghi e bizzarramente elaborati e cucirli su situazioni spesso idiote ma che si integrano comunque perfettamente nello scenario creato. La trama non è niente di che, e rifacendosi a una famosa ghost story thai diventa semplice accessorio, tuttavia mai banale o privo di sorprese, di una galleria di personaggi incontenibili e di una serie di gag terremotanti che trascinano il film. Poco spazio per un aspetto in qualche modo horror, pur non mancando momenti gore e saltuari sbalzi sulla poltrona (telecomandati ma non fastidiosi), il bello di Pee Mak è trovare ancora una volta un regista sincero e che sa cosa ottenere per accontentare pubblico e critica senza per forza ricorrere a tranelli parodistici e facile ironia pecorona – l’epicità del discorso militare per caricare i compagni, la fuga in barca e il gioco del mimo sono momenti irresistibili, ritmati con un’insistenza e una dilatazione temporale inammissibile nel cinema occidentale. Dilatazione che, sì, diventa unico grosso difetto della pellicola, quasi due ore di durata non sono poche e si poteva salvare la qualità generale tagliando qua e là (la sequenza del luna park, la più stanca del film), ma si perdona ogni cosa prima di tutto per un cast divertentissimo e chiaramente a suo agio in ruoli urlati e strampalati, e poi per una lunga, intensa conclusione che rivela una struttura generale ben più complessa rispetto alla media (non solo thai, ovviamente) e che sa commuovere con naturalezza e genuinità senza premere su chissà quali leve strappalacrime.
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