Magazine Racconti

PENNA ROSSA 4° Episodio

Da Bibolotty
Non è una pazzia, non è una semplice invenzione e tu lo sai. Questo gioco è andato avanti per cinque anni ed è stato interrotto bruscamente. Io volevo vincere la partita, almeno ci ho provato. 
Laura mi ha fatto sapere che saresti partito con tua moglie, destinazione Parigi sembra. Ma non era lì che hai vissuto le tue passioni più romantiche, quelle che ti avevano stancato e per le quali non c’era più spazio?
Lo trovo di cattivo gusto. Come trovai di cattivo gusto il grande anello con rubino che mi mandasti a ritirare tre anni fa, quello con cui volevi risarcirla!
Laura non è riuscita a nascondere l’imbarazzo quando le ho domandato se avessi mai accennato a me ultimamente. Peccato, Davide, mi saresti risultato umano, almeno un po’.
Sento un dolore intenso su tutta la pelle, come se un’ustione si fosse palesata all’improvviso su ogni parte del mio corpo ma non voglio piangere, non me la sento di espellere questo dolore ingiusto anzi voglio accoglierlo, dargli modo di crescere, guardarlo.
Ho trovato un modo per comunicare con te.
Ho inventato un altro te, un Maestro invisibile che si occupa di me, che mi segue da lontano.



PENNA ROSSA 4° Episodio



Davide era stanco, afflitto da tutto quell’amore ingiustificato, da quella passione non richiesta. E spostò lo sguardo non troppo lontano dalla quella scrivania solida e raffinata, non troppo distante dalla giacca da camera di cachemire che indossava.
Come quel pomeriggio di cinque anni prima, tagli di luce fendevano l’oscurità della stanza. E nello stesso modo era illuminato l’ingresso, che lo vedeva in controluce, come chiunque entrando da lì: una grande sagoma austera e intoccabile.
Alle donne dava sempre appuntamento a quell’ora, così come gli altri quando li voleva studiare non visto.
E stava in alto, più in alto di loro, e parlava poco, lo stretto indispensabile, mettendo spesso in soggezione l’interlocutore, distraendo lo sguardo, sorridendo vago, abbassando più e più volte gli occhi chiari e sottili sull’orologio –uno storico Rolex Daytona regalo della prima moglie-.
Aveva il sole negli occhi Marina quando quel pomeriggio si affacciò allo studio. Avanzò di un paio di passi con la stessa soggezione di chi entra in un Tempio e Davide non poté fare a meno di intuire, in quel bocciolo chiuso e aggrappato a un ego ritorto, la forza vitale e creativa, la sensibilità sanguigna e acuta di chi ha già molte cicatrici.
Fu per questo che Marina ebbe un capogiro alle quindici e trentatré di quel dannato pomeriggio, quando entrò per il colloquio barcollando su stivali troppo alti e troppo nuovi. Il sole negli occhi e quella sagoma austera, l’odore di tabacco e di legna che arde, la sensazione di trovarsi al sicuro: fu questo a darle quella strana sensazione di ubriacatura che la fece inciampare.
Era andata proprio così. E Davide si trovò quella creatura calda fra le braccia, i capelli morbidi odoravano di qualcosa che gli ricordava il profumo di narciso, quello di sua nonna, e si ritrovò in ginocchio a guardare quella donna, perfetta per il suo gioco e seducente.
Quando si riprese, Marina balbettò più frasi insensate, una dopo l’altra, e Davide, abituato ai soliti copioni, non poté che ridere, come liberato da quella coazione a ripetere che lo stringeva in uno strano senso di superiorità e di distacco dal mondo.
Ma non credeva. Non avrebbe mai ipotizzato che quella creatura apparentemente fragile avrebbe penetrato ogni suo segreto, imparato a memoria le sue abitudini, i gusti, le avversioni, i “credo”, le parole.
Marina, la sua assistente perfetta, puntuale, ordinata e sollecita, si sarebbe lentamente fatta carico di ogni sua incombenza, svuotandolo, con la tecnica di un ostinato predatore, di qualunque responsabilità e ricordo, carpendo lentamente ogni suo più intimo segreto.
Il Professore si guardò le unghie e, constatato l’ottimo lavoro della manicure, riprese a leggere anche se, più e più volte in quella frazione di secondo, provò a distogliere lo sguardo.
Mi hai detto che non avresti più amato, che eri stanco, avvilito da tutto quello che la passione porta con sé: la noia.
Sento la putrescenza del’io che hai assassinato, il vero io che hai voluto eliminare dalla tua esistenza e che adesso, impotente, vede la vita, quella vera, scorrere davanti a sé.
Ricordi il quadro di Chagall di fronte al quale mi prendesti per mano? No, non è importante quale, tanto non lo ricordi! Ho trovato il poster e l’ho fatto incorniciare. Fa parte del mio reliquiario adesso, quello dove raccolgo i ricordi, le poche cose che mi restano di te.
Prima di portare via le mie cose dall’ufficio l’anno scorso, ho trovato alcuni tuoi brevi messaggi manoscritti. Hai una grafia bellissima, Davide, ampia e sicura, come la tua firma. 
Ricordi quanto sembrava minuscola la mia accanto a quella “d” gigantesca che abbracciava buona parte del tuo nome?Una volta mi dicesti che avrei dovuto ingrandirmi anche fuori, palesarmi: essere.
Ma non mi hai mai indicato la via.
Davide rimase assorto ancora per qualche istante, lo sguardo impietrito di fronte a quel disastro, a quell’incidente sentimentale che aveva distrutto la sua serenità fatta di abitudini trentennali, di piccole certezze, punti fermi e immobili, ora messi in discussione da qualcosa che ogni giorno rompeva il silenzio del suo cuore stanco, regolato da strumenti meccanici, riparato da mani esperte, assai delicato.


Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog