Ti ricordi dei miei quarant’anni? Il mio compleanno più doloroso? Dai, non è poi così difficile! Fai un piccolo sforzo, Davide, è stato pochi anni fa.
Pioveva, una pioggia settembrina che avrebbe potuto riservare una sorpresa, pensai. Un arcobaleno, pensai, e fu su quella speranza che si sovrappose la tua voce, impercettibile quasi, che diceva il mio nome.
Incerta se mi avessi chiamata o invocata, mi affacciai appena e ti trovai di spalle, fra una lingua di sole e la libreria.
Una sagoma scura e poco loquace. Una presenza così respingente che oggi mi domando perché mi lascio ancora accarezzare dalle tue mani che non conosco, perché non resisto alle tue braccia che non ho mai toccato – a mano aperta, palmo a palmo ti vorrei percorrere-. Perché ti guardo ancora ammirata?
Se allaccio le mani dietro la tua nuca forte e tu mi dici quelle frasi che solo io riesco a farti dire, -che solo io dico nella mente per tua bocca-, allora potrei lasciarmi anche andare, lo sai?
Lo sai.
Ma non è di questo che volevo dirti e non volevo manifestare ancora una volta la mia ossessione, ancora una volta ammettere che non sono guarita, che più mi allontano da te e più ti sento accanto.
Non voglio lasciare su questo file la prova di una passione insana e non volevo nemmeno parlarti delle suole delle tue scarpe sempre puntate sulla mia faccia. A proposito, mi sono sempre domandata se riservi questa cortesia solo a me o anche ai tuoi simili-.
Dicevo dei miei quarant’anni, del pensiero di un arcobaleno cancellato dalla tua voce e dell’invito per una cena a due che non mi azzardai a fare dopo il tuo candido: la prossima donna con cui starò avrà meno di trentacinque anni.
Guardai in basso, ricordi?
Non volevo darti da leggere la mia espressione che sicuramente sarà stata così chiara da essere didascalica, rammaricata, delusa e di più ancora. Ricordo che la lama affilata attraversò il costato, perforò il polmone per fermare la sua corsa su una vertebra.
Tossii.
Freud mi guardò per poi rimettersi giù, il sopracciglio destro alzato, l’orecchio teso nella speranza di sentire una mia risposta. Sì, credo che anche il tuo cane ne ha abbastanza della tua mancanza di tatto.
Avrei dovuto dirti qualcosa invece me ne uscii con l’ultima ricerca sui suicidi di massa in Giappone –probabilmente una logica associazione di idee-, quando la sola cosa giusta da fare sarebbe stata alzarmi e andare via, correre a perdifiato verso un altrove qualunque, lontana.
Chiudere, tagliare, finirla con una storia senza senso che a provare a raccontarla uno nemmeno ci crede, una storia che io stessa stento a seguire e non oso nemmeno capire.
Comunque, oggi mi è capitata una cosa strana.
Ero su Corso Vittorio quando una donna mi ha preso il braccio. Mi ha fermata venendomi incontro, come se mi conoscesse da tempo, quasi avessimo un appuntamento.
E ho provato subito una gran pena per lei e, subito dopo, mi sono augurata una vecchiaia diversa per me, possibilmente priva di certi vuoti di memoria così pericolosi. Invece no, e mi sono ricreduta: la donna mi sorride e dice che mi trova bella, poi mi augura buona fortuna e infine aggiunge, avvicinandosi al mio orecchio, che con occhi così tristi si rischiano cattivi incontri.
Allora la curiosità mi ha vinta e le ho offerto un caffè e quando ha rifiutato le ho domandato se potevo accompagnarla da qualche parte: volevo capire.
Mi ha sorriso e subito abbiamo cominciato a camminare.
Raccontava la sua storia, triste e drammatica come molte e di tanto in tanto si fermava a osservarmi. Ho pensato alle fiabe, ho pensato che forse quella donna era una fata e che di lì a poco avrebbe tirato fuori dall’elegante pochette di coccodrillo un anello magico, una pozione, un filo qualunque da seguire con speranza.
Siamo arrivate a Ponte Sant’Angelo che parlavamo di figli, del perché non ne avevamo avuti e, lì, il silenzio del reciproco dolore ci ha separate, conducendo me al ricordo di un pomeriggio di sole e di un marito pressapochista e stupido, lei chissà dove e in compagnia di chi.
Sono forse i miei occhi tristi che non ti piacciono?
E’ colpa mia se ho guardato in faccia il dolore, se non fuggo la morte e nonostante ciò continuo a sognare?
Il cielo era diventato rosso fuoco ma Davide poté solo intuirlo riflesso nella finestra della piccola torre che aveva davanti a sé. Marina, invece, dal suo monolocale al secondo piano, su una strada piena di buche che d’improvviso si inabissa nella città vecchia, vide venature viola esplodere nell’arancione e nel rosa.
Pepe arrotolò la coda e danzò sulle zampe anteriori guantate di grigio. Marina sorrise per tutta quella grazia e si mise a mondare prezzemolo e cipolla.