Philip Seymour Hoffman in ‘Synecdoche, New York’ di Charlie Kaufman (2008)
In ‘The Master’ (2012) di Paul Thomas Anderson
Morto ad anni 46 per overdose, pare di eroina, da cui aveva cercato di liberarsi più volte. Di quelle notizie che quando arrivano non ce la fai a prenderle per vere. Philip Seymour Hoffman se n’è andato, e ti vien da dire che no, non è giusto che a mancare sia uno come lui, talentuosissimo, tra i migliori della sua generazione. Oscarizzato per Capote dove, nonostante la sua mole, l’imponenza fisica, riusciva a farsi perfetto clone dello scrittore di A sangue freddo e L’arpa d’erba. Da film ultra-autoriali a quelli di genere ma mai scemi, Mission Impossible 3 e, recentissimamente, Hunger Games 2 dove già si prefigurava una sua preponderante presenza nell’episodio numero 3 che purtroppo non sarà. Una filmografia da vertigine. Sessualmente disturbato in Happiness di Soloindz, prete accusato di pedofilia in Il dubbio, fratello crudele e caino in Onora il padre e la madre di Lumet. Ma nella mente di noi spettatori i titoli si accumulano uno sull’altro, e tanti memorabili. Boogie Nights, Almost Famous, I love Radio Rock, Le idi di Marzo, L’arte di vincere.
I suoi due film più grandi:
1) The Master. Capolavoro e anche più di Paul Thomas Anderson, uno dei film fondamentali di questi anni insieme a The Tree of Life di Terrence Malick, dove Philip Seymour Hoffman è un guru manipolatore di coscienze e fondatore di ambigue sette in un’America post bellica intrisa di molte ansie. Vincitore a Venezia insieme al co-protagonista Joaquin Phoenix della Coppa Volpi come migliore attore, e me lo ricordo educatissimo e affabile sul palco del Palazzo del Cinema a ringraziare e a sedare le molte polemiche sorte intorno al film. E, qualche giorno prima prima, alla conferenza stampa del film in compagnia di tipini dal carattere non facile come Paul Thomas Anderson e Joaquin Phoenix, e lui invece sempre ineffabile, garbato, cortese, la faccia buona e sorridente dell’operazione The Master. Ci mancherà anche per questa sua signorilità.
2) Synecdoche, New York. Chi l’ha mai visto in Italia, se non in dvd? Mai distribuito regolarmente in sala. Io l’ho beccato fortunosamente a una proiezione-samizdat in una sala cinefila di Milano. Uno dei film scandalosamente invisibili da noi, eppure (e lo diceva e scriveva Roger Ebert) tra i fondamentali della scorsa decade. Smisurato, ambiziosissimo. Cinema nel cinema, secondo il labirintico e cerebrale Charlie Kaufman, qui oltre che sceneggiatore anche regista. Anzi, autore assoluto e onnipotente. Ne esce un film – siamo nel 2008 – che, presentato a Cannes, sconcerta e spiazza, e scontenta molti. Entusiasmando però un manipolo di sostenitori. Quasi impossibile da raccontare. Diciamo, e stavolta non è una citazione pigra e ovvia ma necessaria, che è l’Otto e mezzo di Kaufman. L’ispirazione felliniana è evidentissima, quella pirandelliana pure. Un regista teatrale – Philip Seymour Hoffman – cerca di mettere in scena il play della sua vita, in una duplicazione incessante tra esistenza e scena, in un andirivieni vertiginoso (e pure lambiccato) tra realtà e simulazione. Di tutti i film, e sono un’enormità, ispirati a Otto e mezzo, il più originale, coraggioso e radicale. Un capo d’opera che resterà. Da recuperare, anche per Philip Seymour Hoffman. (Synecdoche è la piccola città dello stato di New York in cui abita il protagonista.)