Autore: Widad Tamimi
Editore: Mondadori
Collana: Scrittori italiani e stranieri
ISBN: 8804604220
ISBN-13: 9788804604228
Pagine: 295
Sinossi: Il caffè è un punto fermo nella vita di Qamar: espresso e vigoroso come lo beve la madre, ingentilito da un goccio di latte come piace al suo compagno, oppure fatto bollire tre volte, amaro e profumato di cardamomo, come ha imparato a berlo in Giordania. Da sempre Qamar è in equilibrio tra due mondi, ma lo ha scoperto solo il giorno del suo quattordicesimo compleanno, quando è diventata ufficialmente donna. Sottratta a ogni contatto promiscuo, costretta a una improvvisa separazione dagli amici, Qamar deve confrontarsi con le differenze profonde tra le due culture di cui è figlia. Eppure, nelle lunghe giornate trascorse con le donne di famiglia, impara a curare il corpo come ogni sposa deve saper fare, a cucinare, a essere seducente e insieme modesta. Ed è durante queste lunghe ore al femminile che viene introdotta all'antico, affascinante rituale del caffè: nonna, zie, sorelle, riunite nel salotto si scambiano confidenze e si preparano a conoscere il destino. Solo una, ogni giorno, è la prescelta per l'interpretazione dei fondi da parte di Khalto Sherin, che sa leggere nel sedimento i segreti del cuore e del futuro. Anni dopo, di fronte al dolore di una maternità mancata, Qamar sentirà la necessità di recuperare le proprie radici e ripensare alle parole ascoltate il giorno lontano in cui lesse la propria vita nel sedimento. Scegliere gli ingredienti del proprio caffè, deciderne aroma e intensità, significa capire che gusto vogliamo dare alle nostre giornate.
Il pensiero di Amarilli73: Questo romanzo mi ha ricordato un oggetto prezioso che si può guardare ma non toccare, e cioè un testo scritto in modo ineccepibile, molto molto curato, a tratti poetico, che però ti lascia apatica, della serie “grande ammirazione, ma alla fine cosa mi hai lasciato?”.
Alcune idee di partenza sono senza dubbio originali, in primis la descrizione dei vari personaggi e dei loro caratteri fatta attraverso il tipo di caffè che prediligono. Alla madre di Qamar, ad esempio, il caffè piace forte: “è una donna silenziosa, che non spreca parole e le sceglie con cura. Intenso superiore ricco. Queste sono le qualità di un caffè completo, con la giusta corposità”. Mentre a Qamar piace leggero, annacquato, quasi senza carattere, sua madre cerca un aroma che incida, “e lo beve bollente perché la lingua venga scolpita da solchi indimenticabili, eterni”. E la madre si dedica alla preparazione del caffè del mattino come ad un’arte: “Pigia la polvere nera nella moka fino a creare una montagnetta pressata, liscia dalla cima fino alla base. La comprime, la leviga col cucchiaino, e infine la schiaccia avvitando la parte superiore della macchinetta. A fuoco basso coccola l'acqua perché salga adagio. Il caffè ascende a gocce, amare e concentrate. Una bevanda sacra, senza la quale è impensabile cominciare la giornata. La preparazione è meticolosa, sempre la stessa”.
Il suo compagno, Giacomo, invece, ha una personalità tenera e rassicurante., anche se sa essere preciso e determinato. Con lui ho cominciato a lasciar fluire il sedimento, disinvolta davanti al destino. Niente più colini né fuga dalla realtà. Ho scelto il mio caffè. Scuro e amaro, bollito tre volte a fuoco basso, lungo a sufficienza per intrattenermi in una conversazione.
Molto bella è anche l’idea di ricollegare al caffè la vita della protagonista, facendo partire le sue sofferte decisioni e la sua graduale maturazione da una lontana divinazione dei fondi del caffè che le avevano fatto, da ragazzina, così come quella di combinare caffè ed amore: Le difficoltà in una coppia arrivano sempre, bisogna lasciare sedimentare. Perché l’amore è come il caffè.
Tuttavia, l’innegabile bellezza di queste descrizioni si perde poi nella trama complessiva, nella narrazione della vita presente di Qamar, inframmezzata ai ricordi delle estati che passava da bambina in Giordania, presso la numerosa famiglia paterna, convivendo in una grande casa con una tribù di zie, zii, cugini e vicini. Immagino che l’autrice volesse verosimilmente descrivere con rimpianto e malinconia il periodo passato da Qamar ad Amman: l’impressione che se ne trae è invece quella di ambiente chiuso, bigotto, in cui una donna si sente imprigionata, in cui il tempo sembra non scorrere mai. Lei stessa lo sottolinea: Le mie zie e le cugine più grandi seguivano il loro ritmo domestico con meticolosa puntualità, senza mostrare insofferenza. I pomeriggi potevano proseguire in questo modo per settimane intere. Ecco, la narrazione ha questo stesso ritmo sonnacchioso, per pagine e pagine. Non per niente Qamar, dopo che è divenuta donna ed è stata separata e confinata dietro le mura, non ci ritorna più per quasi venti anni, preferendo crescere nella più banale (ma certamente più vivace) Italia.
Se poi si considera che l’unico evento che scandiva il pigro incedere del tempo nella Grande Casa (parole sue) era il cosiddetto caffè delle donne, ovvero il riunirsi per bere e per leggere il futuro nei sedimenti lasciati nella tazzina, non si riesce davvero a capire da dove derivi tutto questo rimpianto, per Qamar, giovane arabo-occidentale eternamente insoddisfatta.
Il caffè non veniva bevuto tutto, rimanevano il sedimento e un goccio della densa bevanda. Con un gesto rotatorio del polso, il sedimento veniva trasformato in una pastella densa. Dapprima le rotazioni erano lente e misurate, poi si facevano sempre più ampie, fino a sporcare le pareti della tazzina. A quel punto il piattino veniva appoggiato sopra alla chicchera e con un movimento rapido la si capovolgeva. Dopo qualche minuto le tazzine venivano rigirate e il piattino sporco di sedimento spostato più avanti sul tavolino, come a dire che non sarebbe più servito. Ogni donna stava a osservare le ombre disegnate sulle pareti della propria tazzina, girandola lentamente per osservarla da varie angolazioni.
Il fatto è che la sua vita in occidente (ovvero università, carriera nelle ONG, convivenza con fidanzato -occhio, non matrimonio! - in assoluta LIBERTA’), le appare così grigia (?), mentre laggiù ad Amman tutto resta ammantato da un velo di (finta) favola: ah…le mie radici, ah quella cara vecchia cultura che non mi appartiene, ma a cui resterò legata per sempre.
Confesso che io, nella mia assai probabile ottusità mentale, non ho proprio capito perché.
Persino questa visione idealizzata non riesce a nascondere inaccettabili contraddizioni: Qamar, libera, istruita, con un lavoro come mediatrice culturale, non batte ciglio quando vede i lividi sotto il velo della zia. Nel nostro mondo sarebbe violenza, laggiù giammai! Qamar si guarda bene dal minimo accenno di critica: il marito ha sempre rispetto e pudore per la sua sposa, e non si spinge mai oltre il limite (con sempre lo sguardo compassionevole dell’Onnipotente che vede e benedice…).
La Tamimi scrive bene, con frasi da annotare (Espresso non è il mio genere, ha ragione mia madre. È troppo penetrante, quasi invadente. Ti sciocca e se ne va. Come al bancone del bar. Invece io ho bisogno di sedermi, di lasciar scorrere i pensieri e fissare il mio equilibrio. La sorte ti tocca comunque, tanto vale affrontarla a colazione.) ma non mi è piaciuto il tanto promesso incontro-scontro tra culture: ciò presuppone, in effetti, la contrapposizione di almeno due culture, ma qui dove sono? In realtà Qamar non ci fa che parlare del suo mondo, della sua tradizione arabo-mussulmana, e, solo per intuizione-deduzione, capiamo che sia sua madre, sia il suo compagno Giacomo non ne fanno parte. Ma, appunto, quale è la loro cultura, contrapposta alla sua? Silenzio assoluto. Come se loro non avessero neppure una propria dimensione religiosa, o una propria tradizione familiare (anche se banalmente italiana).
Davvero un romanzo contraddittorio: seppure viene continuamente ribadito il concetto della ricerca dell’unione tra le differenze, del ponte gettato tra due mondi, io ne ho visto e conosciuto - attraverso gli occhi di Qamar- uno solo.
Amarilli73