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Pensieri sciolti sulle scuole di scrittura creativa

Creato il 28 luglio 2011 da Autodafe

di Cristiano Abbadessa

Forse, tanto per cominciare, sarebbe opportuno cominciare a chiamarle con un altro nome.
Perché le scuole di scrittura creativa, portando il peccato originale di questa pedissequa traduzione dal creative writing angloamericano, suscitano istintive reazioni estreme. I refrattari le dileggiano, trovando buon gioco nell’ossimoro “insegnare la creatività”, che è ovviamente impresa impossibile. Mentre coloro che ne sono stati sedotti, e le hanno frequentate, mettono avanti questo titolo di partecipazione, quasi ad attestare il rango di “scrittori diplomati” (perché la “scuola”, si sa, serve per il pezzo di carta).
Bisognerebbe allora uscire dall’equivoco e partire dicendo che una buona scuola non “insegna” la scrittura creativa, ma la disciplina. Non può dunque essere paragonata, come troppi fanno, a un corso di cucito o di lingua per principianti, in cui si forniscono i primi rudimenti della materia. Potremmo semmai definirla una scuola per coloro che si occupano di scrittura creativa; nel senso che la materia prima (la creatività, la capacità di osservazione, la sensibilità per la narrazione) viene portata dai discenti, mentre al docente spetta il compito di fornire un metodo di lavoro, smussare le ingenuità, sviluppare le attitudini.
Una buona scuola dovrebbe funzionare partendo da questi presupposti. Viene però da chiedersi se questo, al di là dei nominalismi, accada per davvero. Perché di sicuro, oggi come oggi, l’impronta lasciata dalla frequentazione di una scuola di scrittura creativa appare piuttosto vistosa e omologante.
Faccio un esempio concreto e basato sull’esperienza diretta. In redazione, ci basta quasi sempre leggere poche pagine di un aspirante autore per capire se ha frequentato o meno un corso di scrittura; senza, naturalmente, averne ancora letto il curriculum. Perché pregi e difetti, prendendo ovviamente in considerazione coloro che in ogni caso “sanno scrivere”, sono molto diversi e molto ricorrenti: chi esce da una scuola ha la tendenza a utilizzare certe tecniche imparate a tavolino, applicandole non sempre a ragion veduta, talora abusando nello sciorinare in un’unica opera tutto quanto ha appreso in termini di varietà stilistiche e strutturali, talora cadendo in forme troppo chiaramente, appunto, scolastiche; mentre l’autodidatta alterna spesso pagine di grande forza narrativa a periodi di risacca, commette alcune ingenuità nelle scelte lessicali, ha di solito una buona storia e un valido stile ma è incerto nelle definizioni strutturali.
In quel quasi, in quella manciata di autori di cui a prima vista non si coglie l’esistenza o meno di una formazione scolastica, sembrerebbe annidarsi quella giusta misura propria di chi ha saputo elaborare e adattare l’insegnamento (se lo ha ricevuto) o giungere a una completezza di repertorio narrativo per via naturale. Ma non è neppure vero; perché chi non presenta le evidenti stimmate del diplomato o dell’autodidatta non è esente da quelle stesse pecche sopra citate, ma magari le mescola rendendone meno riconoscibile l’origine e la causa. E non è perciò detto che esibisca la giusta misura di chi ha saputo emendarsi dal ricorso agli appresi artifizi scolastici o superare le ingenuità proprie di chi ha affinato da solo il talento brado.
Come sempre, generalizzare è difficile e incauto. Di fronte a certe carenze noi stessi, ci è capitato, abbiamo suggerito la frequentazione di una buona scuola di scrittura creativa, per mettere del metodo al servizio di una buona predisposizione. In altri casi abbiamo tratto l’impressione che una sorta di nozionismo autoriale avesse penalizzato qualità naturali non disprezzabili.
Niente di grave, comunque. Nel nostro lavorare accanto agli autori di talento, sulle loro buone storie, siamo sempre stati in grado di provvedere autonomamente, laddove la base di partenza era significativa, alla riduzione di virtuosismi fuori luogo, alla semplificazione di ciò che non merita di venire artificiosamente complicato, alla rifinitura di una materia grezza ma preziosa.
Semmai, e potremmo qui aprire in altro momento una discussione non campata in aria, sarebbe forse giusto che le scuole si dedicassero di più a insegnare il mestiere dello scrittore. Provare a uscire dalla tendenza, ancora imperante, di “insegnare a scrivere”, fissando canoni stilistici che vengono poi replicati senza troppa fantasia, per provare a “insegnare a essere scrittori”. Perché chi davvero aspira a tale qualifica, senza limitarsi all’estemporanea pubblicazione di un’opera, dovrebbe probabilmente sapere qualcosa di più sui meccanismi del mercato editoriale, sul modo di scegliere un editore cui proporsi, sulle modalità con cui proporsi, sui contratti (in relazione all’editore che si è trovato, ovviamente), sulla promozione di un’opera, sulle presentazioni al pubblico. Perché troppo spesso la vera disillusione arriva, per l’aspirante scrittore, da scelte sbagliate; inevitabilmente sbagliate, perché su questo nessuno gli ha mai spiegato come muoversi, come capire chi ha di fronte, come valutare le proposte e quali aspettative legittime riporvi.
E forse sarebbe una buona idea cominciare a insegnare qualcosa in questo campo. Forse sarebbe anche una buona idea per noi, voglio dire.


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