Pentiti di niente. Giugno 1975: le indagini si estendono

Creato il 05 settembre 2010 da Antonellabeccaria

Il 4 maggio 1975, si diceva, è il giorno in cui la banda che rapisce Carlo Saronio commette il primo e principale errore: Casirati viene notato dagli agenti in borghese che seguono l’auto usata per andare a pagare il riscatto. Le dichiarazioni di Fioroni sembrano confermare che la pista è corretta e nel frattempo si sono aggiunti ulteriori dettagli raccolti dagli inquirenti.

Nei giorni successivi al mancato pagamento, la polizia si presenta a casa di Stella Carobbio, la sorella di Alice, compagna di Casirati, e sia lei che il marito, Giuseppe Beratti, dichiarano che effettivamente il 19 maggio il malavitoso che vive con Alice aveva consegnato loro una Simca 1000 con lo stesso numero di targa di quella vista nella cava: la devono restituire alla madre di lui perché Casirati se n’è comprata una nuova e non ne ha più bisogno. Inoltre fino a qualche giorno prima aveva vissuto insieme alla donna in un appartamento di Sesto San Giovanni, affittato sotto la falsa identità di Antonio Angeloni, e la coppia era scomparsa proprio in corrispondenza del pagamento del riscatto senza fornire alcuna spiegazione al padrone di casa e senza lasciare nuovi recapiti ai parenti.

Ma occorre rintracciare anche “lo scotennato”, l’ex-legionario di cui parla Fioroni dal carcere svizzero, e in aiuto arrivano informazioni fornite dalle questure della Calabria: un tizio con lo stesso soprannome lo conoscono, si chiama Giustino De Vuono, è un altro criminale comune anche se ufficialmente si manterrebbe con una pensione della Legione Straniera, e guarda caso salta fuori che era stato visto in Lombardia proprio nei mesi precedenti il sequestro.
Il 15 gennaio 1975, infatti, davanti a un bar di Milano, in via Neera, ha luogo un conflitto a fuoco in cui rimangono feriti due noti pregiudicati, Vincenzo Bellardita e Nicola Ventimiglia: a sparare loro, secondo le testimonianza, sarebbe stato un individuo che assomiglia a De Vuono. Il quale, dicono gli informatori, si è trasferito al nord in cerca di fortuna e si è inserito negli ambienti malavitosi che ruotano attorno a quel bar.

Nelle settimane successive alla sparatoria, però, De Vuono sparisce dalla circolazione: è lui il principale sospettato del ferimento di Bellardita e Ventimiglia e non gli conviene rimanere in zona, ma resta in contatto con una donna, Gioele Bongiovanni. A confermare il collegamento ci sono alcune intercettazioni telefoniche e la voce di De Vuono, una volta registrata, viene fatta ascoltare ai familiari di Carlo Saronio che ricevevano le chiamate dei sequestratori: è quella la voce anonima che li minacciava e dava loro informazioni? Sì, affermano i parenti della vittima, e sono sicuri per due ragioni: il marcato accento calabrese e un intercalare specifico, costante, un “diciamo” ripetuto quasi in ogni frase.

Un’ulteriore conferma la si cerca da Fioroni: ancora detenuto in Svizzera, gli vengono sottoposte sia le registrazioni della voce che le fotografie segnaletiche e lui afferma che entrambe sono dello “scotennato”. È lui, Giustino De Vuono. Ma il criminale non si trova e l’unico modo per arrivarci forse è la donna, Gioele Bongiovanni, che viene pedinata. Succede così che il 6 giugno 1975 lei esce di casa, prende l’auto, fa qualche giro, e poi si ferma di fronte a un appartamento di via Ronchi, a Milano. Lì dentro resterà per un po’ e quando ricompare sul portone del palazzo è con l’uomo che gli investigatori stanno cercando. La coppia viene fermata e scattano le perquisizioni personali e domiciliari. Addosso a De Vuono vengono trovate una Smith & Wesson 38 Special e una Beretta 7.65 mentre a casa
sua saltano fuori altre due pistole di grosso calibro, munizioni e documenti falsi.

Ci sono infatti due carte d’identità intestate rispettivamente a Dario Morandotti e a Franco Rossi e una patente di guida sulla quale viene riportato il nome di Maria Saltellani. Da altri documenti trovati nell’appartamento di via Ronchi emerge che De Vuono l’ha affittato il 15 maggio precedente, venti giorni esatti prima, a nome di Franco Rossi. Inoltre da febbraio, a sparatoria di via Neeva ancora recente, aveva preso in locazione un altro appartamento che si trova in via Beato Angelico, sempre a Milano, firmando un contratto compilato a nome di Massimo Vannoni.

Guarda caso quest’ultimo domicilio si trova molto vicino a una cabina del telefono, la stessa da cui – dicono i tabulati – il 18 aprile era partita alle 12.48 una telefonata per la famiglia Saronio durante la quale uno sconosciuto dal marcato accento calabrese trattava per conto dei rapitori la liberazione dell’ingegnere scomparso. Al momento dell’arresto di De Vuono in via Beato Angelico risultano sue ospiti due ragazze, Maria Chiara Ciurria e Patrizia Scarpina, e la fotografia della prima è stata applicata sulla patente falsa trovata nella nuova casa del calabrese. Sempre lei possiede inoltre cinque banconote da diecimila lire provenienti dal riscatto.

Ma la posizione di De Vuono è destinata ad aggravarsi ulteriormente: quando la sua fotografia viene pubblicata su un quotidiano, Armando Damaschi e Alessandro Tonolli, i collaboratori della famiglia Saronio che si occupano dei contatti con i malviventi, si accorgono di averlo già incrociato, quell’individuo, e non ci mettono molto a ricordare dove: la sera del 23 aprile precedente si trovavano in un bar, il Bar Bis, dove i rapitori avevano ordinato loro di andare e di sedersi in attesa di un contatto. A un certo punto si era affacciato un uomo, aveva squadrato tutti gli avventori e poi se n’era andato subito. Cinque minuti dopo il telefono del bar squillava: erano i sequestratori di Saronio.

Gli investigatori proseguono nei loro accertamenti. Perquisizioni condotte a casa dei genitori e della sorella di De Vuono, Maddalena, portano a ulteriori elementi: una somma di denaro di poco meno di tre milioni di lire e le ricevute di dieci versamenti eseguiti tra il 16 maggio e il 4 giugno da una tale Franca Colosimo, alias Maddalena De Vuono, di 200mila lire ciascuno. Destinataria: Gioele Bongiovanni. Per quest’ultima non c’è modo di evitare l’arresto per favoreggiamento e concorso in falso e ricettazione: sarebbe stata lei, secondo l’accusa che si va costruendo, ad aver fornito a De Vuono i documenti con le identità fittizie e sempre suo sarebbe un foglio sul quale sono annotati tutti i negozi di Milano che vendono uniformi militari e due taglie di abiti, la 48 e la 56.

Attenzione perché questo elemento non è da poco e se ne parlerà più avanti. Intanto per gli inquirenti maggior rilievo hanno altri dettagli: testimonianze di vicini di casa di De Vuono e una rubrica telefonica lo mettono in relazione a un altro personaggio, Gennaro Piardi, conosciuto in giro con il diminutivo di “Ciccio” e visto spesso con il calabrese nel bar di via Neera, dove a metà gennaio si spara, e in quello di via Aselli. Che c’entri qualcosa con il sequestro? È da accertare così come è da accertare la posizione di un altro individuo, Ugo Felice, che in galera c’è dal 24 giugno 1975 per detenzione di armi e sospetto spaccio di stupefacenti: tra gli oggetti rinvenuti in suo possesso, c’è anche una banconota da 100 mila lire proveniente dal riscatto. Era ancora a piede libero quando la famiglia Saronio versava i 470 milioni per liberare Carlo.

Ma la rete delle presunte complicità sembra non arrestarsi ancora. Il giorno dopo l’arresto di Felice, viene portato a San Vittore anche un altro uomo: è Luigi Carnevali, sospettato di aver compiuto un furto in un appartamento di Como. Anche tra i suoi effetti c’è una banconota che faceva parte del riscatto. Accusato a questo punto di concorso in sequestro, rifiuta di fornire qualsiasi informazione sulla persona che gli ha dato quel biglietto. Non resta che indagare su di lui per cercare di capire la provenienza del denaro. Così gli agenti della squadra mobile vanno in una trattoria di via Bengasi dove Carnevali aveva lavorato in precedenza come cameriere, ma che aveva continuato a frequentare anche dopo.

E qui i titolari, Santa Grandoni e Luigi Kolbe, raccontano qualcosa di interessante: Carlo Casirati e Alice Carobbio erano due clienti abituali da circa sette mesi e nei primi dieci giorni di maggio avevano pranzato almeno per un paio di volte con due giovani: il primo assomiglia molto a Carlo Fioroni mentre il secondo è sicuramente Franco Prampolini. I ristoratori ne sono certi perché in una di quelle occasioni quest’ultimo aveva dimenticato il suo borsello sul tavolo e loro, trovandolo, avevano cercato un riferimento per capire a chi appartenesse, leggendo le generalità riportate sulla carta d’identità. Gli accertamenti delle forze dell’ordine si erano dunque allargati ai locali pubblici della zona: Casirati e Carobbio avevano frequentato anche una gelateria di via Padova e qui ad attenderli spesso c’era “Ciccio”, cioè Gennaro Piardi.


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