Oggi è 9 maggio ed è il trentaduesimo anniversario della morte di Aldo Moro, presidente della dc, ucciso dalle br, a seguito della decisione presa dal comitato politico brigatista. Ma ad ammazzare Moro, a volere la sua morte, non furono solo le br, ma anche il mondo politico_ istituzionale dell’epoca, come Romano Prodi, che allora non era ancora sceso in politica, se ne lavò le mani. Per il semplice motivo che rompere le uova nel paniere agli americani, avrebbe compromesso le relazioni diplomatiche e l’Italia sarebbe caduta nelle mani comuniste dell’Unione Sovietica. Ma il nove maggio non si ricorda solo il povero Moro che nessuno volle salvare, ma anche l’ignobile morte avvenuta la stessa sera, di un ragazzo di ca vent’anni, in Sicilia, per mano di un clan mafioso, questo ragazzo, che per liberare la sua amata terra dal cancro della mafia (che nessuno alla fine vuole estirpare, perché avere un mafioso vicino può venire utile a chi si trova nella melma) ha avuto il coraggio di mettere su una radio, e raccontare la realtà. Oggi vanno di moda i blog, e se ci fosse un pò di coerenza e si ammettesse che per pura convenienza politica o opportunismo, si legittima e si accetta il potere della criminalità organizzata. Nel cercare di capire quale fosse il segreto della criminalità, i giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, paragonarono la mafia ad una setta, e aveva perfettamente ragione. Nel tentare di sradicare la criminalità organizzata, bisognerebbe anche mettersi una mano sulla coscienza e chiedersi: il problema va risolto alla radice, facendo tornare l’ordine e la disciplina e ricordandosi che non si muove il culo per fare qualcosa di personale. Non si marcia per sé stessi sbracciandosi come dei dannati e aspettando un posto in paradiso (ammesso che quel posto sia libero). Si marcia per cambiare un paese, si marcia sperando che se hai un figlio, non gli capiti di restare senza lavoro. Si marcia pensando che questo paese cambi, e che qualcuno lo faccia cambiare ricordandosi sempre di quelli che lo hanno preceduto, ogni momento, ogni secondo, senza preoccuparsi di quello che dovrà affrontare. I magistrati che sono morti durante gli anni di piombo, sono morti perché facevano il loro lavoro, perché erano al di sopra della politica e rispettavano la legge. Non hanno avuto bisogno di vendersi a un partito per stare dalla parte giusta, o di travisare la costituzione quando gli conveniva (“i giudici sono soggetti solo alla legge”) e fare i loro affari. I magistrati seri, non usano l’ermellino per diventare supereroi della legalità e fare finta che dietro il loro apparato iper burocratizzato non ci siano problemi. E il problema più grande spesso sono la voglia di fare carriera a tutti i costi e l’apparire puliti davanti ai comuni mortali. Se chi processa una persona in questo secolo, si mettesse una mano sulla coscienza forse non staremmo a vedere indecorosi spettacoli, dove le toghe sfoderano le proprie opinioni danneggiando il cittadino e facendo chiaramente intendere di essere al servizio dell’apparato di categoria, se anziché fare i politici facessero i magistrati, allora davvero le vittme come Terranova, Cassarà, Borsellino o Moro, o Accorsio o Marco Biagi, davvero costoro, saranno morti per difendere lo stato. Ma quanto tempo dovrà passare prima che molti (non tutti) giudici, si accorgano che devono fare i giudici e non gli ultras?
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