I primi a cantare erano i galli dei monaci della Certosa, nella lontananza della campagna, quando dietro il bosco il nero della notte virava al blu scuro.
Clotilde si alzò, accese il lume e si affacciò alla stanza del fratello. Magnus era già sveglio, come ogni mattina, e con la sola testa e le mani fuori dalle coperte aspettava solo quel segnale per scostarle e balzare giù dal letto, pronto e felice come se ogni giorno fosse di festa.
Magnus era così: il corpo di un uomo di trent’anni, il cervello di un bimbo di tre, l’anima di un angelo. Le febbri che lo avevano colto quando era piccolissimo lo avevano lasciato un po’ tocco, di una stoltezza buona, fatta di candore e mansuetudine. Obbediente come un cane, laborioso come un mulo e portato alla felicità come un rondone a primavera. Sì, magari parlava poco, ma aveva il dono della sintesi e ciò che gli sarebbe riuscito complicato da dire lo esprimeva in sorrisi espliciti. E quelle mani, poi: mani d’oro, che sapevano fare di tutto.
Clotilde scese in cucina, ravvivò il fuoco e scostò le imposte: fuori era ancora troppo buio, restava una debole coda di luna al tramonto, già incalzata dall’indaco che sorgeva. Nella notte il gelo pareva essersi allentato: la campagna era molle di umidità ma non brillava più di brina. Magnus apparve sulla porta, alto e robusto e con la bocca già pronta al sorriso, e fece l’annuncio:
“Ho visto la neve”.
Se l’aveva vista, significava che l’aveva sognata; per lui non c’era differenza, non esisteva confine fra la realtà e il sogno, il suo contatto viscerale con la natura era vivo anche durante il sonno e gli parlava con la stessa certezza che percepiscono gli animali.
Clotilde gli credette subito. Gli credeva sempre. I due si scambiarono uno sguardo interrogativo, come stessero esaminando tutta una serie di fatti e programmi che non necessitavano di parole, e Magnus alla fine ripeté, con la medesima lieta sicurezza di prima:
“Ho visto la neve”.
Poi prese il secchio e uscì a mungere le vacche, mentre la sorella iniziava a impastare il pane sul piano infarinato della madia. Altri lumi si andavano accendendo nelle stalle dei casolari sparsi, altri coloni cominciavano la giornata dopo aver annusato l’aria per trarne presagi, altre donne impastavano acqua e farina e riponevano le pagnotte a lievitare accanto al focolare. Il latte fresco si scaldò sulla stufa e andò a riempire due grosse ciotole piene a metà di caffè d’orzo. I due fratelli fecero colazione continuando a lanciare occhiate alla finestra, come presi da un’urgenza che aveva tuttavia qualcosa di festoso.
C’era molto da fare, se davvero avrebbe nevicato. Clotilde rassettò velocemente le stanze, estrasse le trapunte più pesanti dalla cassapanca, spazzò i pavimenti poi raggiunse Magnus che stava rigovernando le bestie. Era nato un sole piccolo e fumoso, buono solo a spandere un chiarore lattiginoso e senza riflessi. Rabboccarono il mangime e l’acqua per le galline, i maiali, i conigli, e fissarono pezzi di tela cerata a coprire le lamiere del pollaio. Nell’orto sguarnito le verze si aprivano sfarzose, barocche, e Clotilde ne colse le due migliori per conservarle in salamoia. Con le ultime piccole mele e una decina di cachi riempì una cassetta e la mise in salvo dal gelo. Poi protesse con fascine di paglia il piede degli alberi da frutto, mentre Magnus rivoltava la terra dell’orto per l’ultima volta in quella stagione, affidandola poi alle drastiche cure dell’inverno. Avere dei compiti lo elettrizzava, e poterne contemplare alla fine i risultati gli dava alla testa dalla felicità.
Per tutta la mattina portarono avanti i preparativi per il lungo isolamento che li aspettava, e intanto il disco pallido del sole si era lasciato ingoiare da un grigiore denso come vello di pecore. La luce si era fatta spettrale, e anche la gatta si guardava intorno in attesa, senza allontanarsi troppo dalla soglia. Anche lei aveva visto la neve. Anche le cornacchie che volavano basse rasentando i pendii l’avevano vista.
Magnus salì sul tetto per verificarne la tenuta. Clotilde raccolse un cestino di uova. La gatta tornò dentro e si rannicchiò di nuovo a dormire accanto al fuoco.
Ingrassarono i serramenti esterni, i mozzi del carro, la carrucola del pozzo, gli scarponi. Magnus stipò la legnaia con nuovi ciocchi tagliati a misura e accatastati con ordine, occupando meticolosamente ogni spazio. Il fienile traboccava: con un forcone ciascuno rivoltarono il foraggio perché non prendesse di muffa, e non sentirono più il freddo.
Il nevischio cominciò intorno a mezzogiorno. Il primo a vederlo fu probabilmente il pettirosso sulla staccionata, poi lo videro anche loro dalla finestra della cucina, e terminarono la loro zuppa di castagne in piedi, con la ciotola in mano, guardando fuori dai vetri. Il cielo aveva assunto lo stesso colore e l’apparente consistenza del latte cagliato.
Magnus uscì di nuovo, stavolta per mettere al riparo gli attrezzi; prima li ripulì, li affilò, li fece brillare. Anche i suoi occhi brillavano di soddisfazione, e cominciava a brillare anche il terreno, dove la neve ancora sottile stava attaccando.
Clotilde ispezionò la dispensa: i sacchi di farina, di noci, di castagne, di patate; la damigiana dell’olio, il mastelletto di strutto; gli orcioli di miele, i vasi di composte, marmellate e confetture; le salamoie di ortaggi, le scatole di latta con le spezie seccate; i salami appesi alle travi; il sale, lo zucchero, gli scuri bottiglioni di vino, le forme di cacio. Tutto in ordine, tutto confortevolmente in ordine.
L’imbrunire scese presto: la neve aveva preso forza e scendeva a falde più grandi, calma e sicura, senza vento né rumori, solo quella maestosa regolarità che indicava una nevicata lunga e abbondante, forse per giorni. Ormai era tutto bianco, e Magnus vi impresse le sue orme quando uscì per rigovernare gli animali per la notte, ma le tracce furono ricolmate presto e la neve ristabilì il suo ordine armonioso tutto intorno. Nel silenzio del vespero giunse ovattato il rintocco della campanella dei monaci, e parve lontanissimo. In fondo lo era, lontano, al di là di un mare di neve che ricopriva tutti i sentieri e donava nuove forme e dimensioni ai dossi e agli avvallamenti della campagna.
Cenarono alle cinque, o poco dopo, benché la notte si preannunciasse lunga, e tutte le notti seguenti. E dopo cena lasciarono aperte solo l’imposta della finestrella in cucina, per gettare ogni tanto uno sguardo alla neve che si ammucchiava agli angoli del vetro e continuava senza posa.
Clotilde avvicinò al focolare la sedia con il cuscino imbottito, inforcò gli occhialini che erano stati di suo padre e si mise in grembo i calzettoni di lana da rinforzare con nuove punte e nuovi talloni sulle vecchie smagliature.
La gatta si leccò a lungo il pelo già lucente prima di acciambellarsi con estrema cura per la notte.
E Magnus aprì sull’angolo del tavolo il suo quaderno, appuntì alla perfezione la matita con un coltellino, si diede uno sguardo contento tutt’intorno, incrociando quello rassicurante della sorella, poi cominciò, col sorriso nel cuore, a disegnare le sue macchine per volare.
nell’immagine: Claude Monet, La pie (1869)