Gli risponde George Orwell
a cura di Iannozzi Giuseppe
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Giuseppe Genna: Ho bannato Franz Krauspenhaar per le sue opinioni da autentico fascista, quale so che è. Da ora in poi banno tutti i fascioqualunquisti. Sarò lieto d’altro canto di essere cancellato al più presto dall’elenco dei vostri contatti Facebook, se pensate che tanto sono tutti uguali, che la vedova di Almirante fa bene a dirle certe cose, etc.
Non sono solito bannare, se non ci sono motivi gravi o moleste rotture di palle. Franz lo conosco, non dico sia un amico, ma lo conosco. Non si è mai dimostrato maleducato pubblicamente qui o con me in privato. E’ la prima volta che enuncia… le sue cazzate fascioqualunquiste e destrorse, che in questi anni ho letto vergate da lui in Rete. Prima non c’era motivo. Ora sì. Chiarito questo, il problema non è Franz, bensì quello che altrove ho definito “OGM nazionale che sceglie Berlusconi”. Sottolineo che da stasera siamo in guerra con la Libia, ripudiandola (la guerra, non la Libia, ché tutto abbiamo fatto finora tranne che ripudiare la Libia) per Costituzione. E che oggi è apparsa a Roma la scritta di ingresso ad Auschwitz. L’italiano medio non pare reagire? Io reagisco, non essendo reazionario.
Franz Krauspenhaar: Non è il darmi del Fascista che mi disturba. Fossi Fascista lo direi apertamente, non mi sono mai nascosto su ciò che sono e sono stato. Ma sono le modalità degli interventi che sono dannose, che mi disturbano. Che sono immorali. Non mi piace essere citato da personaggi dannosi ma soprattutto ridicoli. Gente che vive di un potericchio di seconda lega. Gente che più che scrivere “fa altro”. Che parla e accusa per farsi pubblicità. Che lavora per il “nemico” – e dunque è funzionale al nemico, e poi sbandiera un antifascismo da operetta. Gente aggressiva e violenta, come molti hanno potuto constatare in questi anni. Gente che alza la testa dal suo pantano semplicemente perchè gli è arrivato un incarico nuovo… Non è avvilente tutto ciò? Ripeto: combatterò questa gente da Nazista, fino all’ultima “cartuccia”. Viaggiano allineati e coperti, tutti insieme, perché da soli hanno paura. In coro esaltano la propria placentare vigliaccheria. Non hanno la forza morale né tanto meno il fegato di dire le cose direttamente all’interessato.
Raul Montanari: … dico molto semplicemente qual è il mio rapporto col postatore. Siamo stati amici alcuni anni fa e, a leggere il romanzo autobiografico di Franz “Era mio padre”, io sono l’unico suo collega che abbia mai fatto qualcosa per aiutarlo. Parole sue. Vedi: includere il suo bel libro “Le cose come stanno” nella bibliografia della mia scuola di scrittura, dedicargli anzi un’intera lezione; presentare il suo libro successivo, “Cattivo sangue”; scrivergli riguardo allo stesso “Era mio padre” una mail affettuosa che Franz ha riportato come esempio di recensione positiva; introdurlo, dato che questo era il suo desiderio, al programma pomeridiano di Rai2 in cui si discutono fatti di cronaca. Quando Franz ha avuto il suo attacco di cuore, la nostra amicizia era già molto scesa di tono per due ordini di motivi. Il primo è che la vita ci separa, questo succede a tutti e con tutti, e nel mio caso è successo con molte persone perché purtroppo ho un sacco di lavoro da fare, diversamente da certa gente che a cinquant’anni si fa ancora mantenere dalla madre. Il secondo è legato alla confidenza che ho ricevuto un paio di anni fa da una persona affetta fra l’altro da fragilità psichiche, confidenza che per questo motivo terrò per me, ma che è stata sufficiente ad allontanarmi definitivamente da Krauspenhaar. Forse per questo, quando c’è stato l’episodio dell’attacco di cuore non mi sono catapultato a fare non si sa bene cosa, ma ho semplicemente scritto in bacheca a Franz, come molti, chiedendogli notizie della sua salute. Il risultato è stato che quando Franz è tornato a casa mi ha scritto su Facebook una serie di mail insultanti e minacciose, che conservo, vagheggiando di rompermi la faccia e cose del genere, perché non ero stato all’altezza delle sue aspettative: che tutto il mondo si fermasse, come in un famoso fumetto di Pazienza, per stare a guardare cosa succedeva a Franz Krauspenhaar. Io non mi sognerei mai di pretendere una cosa simile nemmeno da amici ben più intimi, ma ognuno ha i suoi criteri. Tutti i ripetuti attacchi pubblici di Krauspenhaar che sono seguiti a quell’episodio hanno come unico motivo quello che ho appena esposto. Giudicate voi, ammesso che abbiate voglia di farlo. Dargli del “povero diavolo” e non dire di peggio mi sembra un atto di estrema moderazione da parte mia. Non interverrò più su questo argomento.
In precedenza Franz Krauspenhaar (qui il post originale) ha avuto modo di dire:
- Ti piace fare lo sbruffone, e siccome di letteratura ci capisci poco (soprattutto ultimamente) fai il gioco dello svacco. Dammi retta, riprendi a pensare, metti a raccolta i neuroni rimasti e prova a dare dei giudizi seri, fatti a ragion veduta, dopo aver letto i libri di cui parli.
- come nel 2005, ai tempi di cattivo sangue, scomodava houellebecq e izzo e malet mettendo questi mostri sacri in paragone con me, ora fa più o meno la stessa cosa (scomodando céline, houellebecq, ginsberg – noto romanziere, come ben sappiamo e altri beat) ma in senso dispregiativo. di cosa parli il libro nessuna traccia.
- tutto quello che questo buffone sa fare, che questo imbecillotto sa fare, è buttare la propria merda addosso alla gente seria che si fa il CULO per portare a casa un risultato.
- allora iannozzi, non ti sei stufato di fare il buffone? perché se non sai di essere un grandissimo buffone, di una rozzezza argomentativa senza precedenti, se non sai di essere un volgare pipparolo della letteratura webbica, allora vuol dire che – prendendoti sul serio – stai veramente male. e allora che dio ti protegga.
- iannozzi, dai, hai la credibilità di un brontosauro nel 3.540. cioè pari a zero.
- sei davvero “ai confini della realtà”. e non capisci una beata mazza.
- se io scrivo che tu nel 2005 mi paragoni – giustamente – a leo malet (che conosco come le mie tasche vuote) e poi nel 2008 mi paragoni ad altri grandi però con intenti denigratori, voglio dire che nel 2008 fai un’operazione ridicola, mettendomi in mezzo a gente come céline o houellebecq, coi quali credo di non assomigliare manco per il cazzo. hai capito? mentre nel 2005 paragonando cattivo sangue a certi noir di malet l’avevi azzeccata, a mio avviso. dunque anche a te capita di azzeccarla. io questo lo dico, senza ipocrisie. tu sei un matto, ecco. questo è il problema tuo.
- iannozzi di artistico ha solo il nome: che sembra quello di un funambolo di un film di franco & ciccio. “franco & ciccio al circo medrano”.
- comunque il mondo letterario è fatto al 90% da morti di sonno. poi ci sono le eccezioni come me e iannozzi; che però di letterario non ha che l’ambizione.
- guarda che Iannozzi non avrà capito una sega. Meglio se traduci.
- Luego tuve una buena intuición: Iannozzi es el inventor de una nueva categoría historiográfica: ornitología aplicada a la crítica literaria – (Traduzione: Ho poi avuto una felice intuizione: Iannozzi è l’inventore di una nuova categoria storiografica: ornitologia applicata alla critica letteraria)
- magari l’ha letto. comunque lo trovo divertente. arriveranno altre stroncature, molto più subdole. una l’ho ricevuta da guido michelone l’altro giorno, è di un tale di “letture”. ecco, quella è subdola; questadi iannozzi fa solo sorridere.
Di Giuseppe Genna leggi Le poesie inedite giusto per capire che tipo è.
Sono stufo di recensire schifezze
di GEORGE ORWELL
Che tormento la professione del recensore! Lo spiegava George Orwell nell’articolo «Confessions of a Book Reviewer», che qui in parte anticipiamo: scritto nel 1946 per «Tribune», sta per uscire su «Lettera internazionale» (www.letterainternazionale.it; tel. 06/8535.0230) nel numero 98, per filo conduttore una «diagnosi del presente». Tra i temi affrontati: i limiti della democrazia (Balibar, Castoriadis, Todorov, un’intervista a Bauman); il ruolo dei mass media (Huxley, McLuhan, Ferrarotti); scrittura e memoria (Ong, Goody, Kadaré e il testo «Lo straniero» di Jabès e Cohen).
E’ uno scrittore. Potrebbe essere un poeta, un romanziere o uno scrittore di sceneggiature cinematografiche o di programmi radiofonici, perché tutte le persone del mondo letterario si rassomigliano; diciamo però che si tratta di un recensore di libri. Semisommerso tra le pile di carte, c’è un grosso pacco con dentro cinque volumi; glieli ha mandati il suo caporedattore con un bigliettino che dice che «potrebbero andare bene insieme». Sono arrivati quattro giorni fa, ma il recensore, colpito per quarantotto ore da una vera e propria paralisi morale, non ce l’ha fatta ad aprire il pacco. Ieri, in preda a un attacco di fermezza, ha tirato via lo spago e ha scoperto che i cinque libri sono: La Palestina al bivio, La produzione scientifica di latticini, Breve storia della democrazia in Europa (questo è lungo 680 pagine e pesa due chili), Usanze tribali nelle colonie portoghesi dell’Africa orientale, e il romanzo Sdraiati è più bello, probabilmente incluso per sbaglio. La sua recensione – circa 800 parole – deve arrivare in redazione entro domani a mezzogiorno.Tre di questi volumi trattano argomenti sui quali è così ignorante che dovrà leggerne almeno una cinquantina di pagine, se vuole evitare di prendere qualche cantonata che lo tradirebbe non solo agli occhi dell’autore (che naturalmente conosce bene le abitudini dei recensori), ma persino a quelli del lettore comune. Per le quattro del pomeriggio avrà finalmente estratto i libri dal loro involucro, ma un blocco nervoso lo tratterrà ancora dall’aprirli. La prospettiva di doverli leggere, o anche solo di annusare l’odore della carta, lo attanaglia quanto la prospettiva di mangiare un budino di riso freddo all’olio di ricino.
Eppure, stranamente, il suo pezzo arriverà in redazione in tempo. In un modo o nell’altro, arriva sempre in tempo. Per le nove di sera, la mente gli si sarà snebbiata e se ne starà seduto al suo tavolo fino a tardi – nella stanza che diventerà sempre più fredda mentre il fumo delle sigarette si farà sempre più fitto – passando con fare esperto da un libro all’altro e liquidandoli tutti con lo stesso commento finale: «Dio, che porcheria!».
Al mattino, con gli occhi cisposi, la barba lunga e più scontroso che mai, resterà a fissare il foglio bianco per un paio d’ore, finché la lancetta dell’orologio, minacciosa, non lo terrorizzerà al punto da spingerlo a entrare in azione. Così, all’improvviso, si getterà a capofitto nel lavoro. Tutte le vecchie frasi trite e ritrite – «un libro da non perdere», «qualcosa di memorabile in ogni pagina», «di particolare interesse sono i capitoli che trattano di eccetera eccetera» – salteranno al loro posto come limatura di ferro per effetto della calamita, e la recensione sarà fatta. [...]
LODI E STRONCATURE
Recensire libri in modo continuativo e indiscriminato è però un lavoro particolarmente ingrato, irritante e sfibrante. Che non solo implica che si tessano le lodi di libri che sono schifezze ma anche che si inventino di volta in volta reazioni verso libri per i quali non si prova alcun sentimento spontaneo. Il recensore, per quanto esaurito, è un individuo che prova un interesse professionale per i libri e, tra le migliaia che ne escono ogni anno, ce ne sono probabilmente cinquanta o cento sui quali gli piacerebbe davvero scrivere. Se è uno molto quotato, potrà forse recensirne dieci o venti di questi – anche se è più probabile che gliene vengano assegnati solo due o tre. Il resto del suo lavoro, per quanto possa essere coscienzioso nel distribuire lodi e stroncature, è per sua essenza un’impostura. La verità è che costui getta alle ortiche il suo spirito immortale, mezzo chilo alla volta.
GLI ESPERTI, CHE IDEA
La maggior parte delle recensioni dà un’idea inadeguata o fuorviante del libro in questione. Dopo la guerra, gli editori non riescono più a tirare per la giacchetta i direttori delle riviste letterarie e a far intonare lodi sperticate per ogni libro che pubblicano; d’altra parte, però, il livello delle recensioni si è abbassato a causa della mancanza di spazio e di altri inconvenienti.
Visti i risultati, qualcuno ha proposto di risolvere il problema sfilando le recensioni dalle mani degli scribacchini di professione: i libri di argomenti specialistici potrebbero essere affidati a esperti della materia, mentre molte altre recensioni, soprattutto di romanzi, potrebbero essere scritte benissimo da non-professionisti. Quasi ogni libro può suscitare sentimenti appassionati, magari solo un’appassionata avversione, in qualche lettore, e le sue idee avrebbero senz’altro più valore di quelle di un professionista annoiato. Purtroppo, però, come qualunque direttore di giornale ben sa, questo genere di cose è molto difficile da organizzare. Gira che ti rigira, il direttore torna sempre a rivolgersi alla sua squadra di imbrattacarte – alla sua «truppa», come la chiama.
CHE COSA VUOLE IL PUBBLICO
A tutto questo non ci sarà rimedio finché si continuerà a dare per scontato che ogni libro meriti di essere recensito. È quasi impossibile parlare di un numero molto elevato di libri senza sopravvalutare grossolanamente la maggior parte di essi. Fino a quando non si ha un qualche rapporto professionale con i libri, non ci si può rendere conto di quanto, per lo più, siano scadenti.
In più di nove casi su dieci l’unico commento critico oggettivamente corretto sarebbe: «Questo libro non vale niente», mentre la vera reazione del recensore dovrebbe essere: «Questo libro non mi interessa per niente e, se non fossi pagato per farlo, non scriverei neanche un rigo».
Ma il pubblico non paga per leggere questo genere di cose. E perché dovrebbe? Vuole indicazioni sui libri che gli si chiede di leggere, e vuole una qualche valutazione. Ma quando vengono espressi giudizi di valore, sembra non esserci alcun criterio di riferimento. Se infatti si dice – e quasi ogni recensore dice qualcosa del genere almeno una volta a settimana – che il Re Lear è un buon dramma e che I quattro giusti è un buon poliziesco, quale significato ha la parola «buono»?
IL SEGRETO: IGNORARE
Ho sempre pensato che l’unica soluzione possibile sia quella di ignorare semplicemente la maggior parte dei libri e scrivere recensioni molto lunghe – di almeno mille parole – sui pochi per i quali ne vale veramente la pena. Utili potrebbero essere brevi note di una o due righe sui libri che stanno per uscire, ma la comune recensione di media lunghezza, di circa seicento parole, è del tutto inutile, anche se il recensore ha veramente voglia di scriverla. Ma normalmente non ne ha voglia per niente [...].
(tratto da «Confessions of a Book Reviewer» traduzione di Laura Talarico. From Tribune © George Orwell, 1946, by permission of Bill Hamilton as the Literary Executor of the Estate of the Late Sonia) (fonte: Tuttolibri)