Per l’ Italia la lotta alla mafia non è la prima priorità, indagine Usa

Creato il 03 ottobre 2011 da Realtanascoste @realtanascoste

RETROSCENA. In un cable del 2008 il console americano a Napoli Patrick Truhn esprime la sua preoccupazione per l’inerzia della politica verso la criminalità. Ed elogia le associazioni antiracket.

La criminalità organizzata è la più grande minaccia per la crescita economica del Sud e la maggiore sfida per la stabilità politica dell’Italia». Inizia così il rapporto sulle nostre mafie (oltre 30 pagine), scritto nel giugno 2008 dal console statunitense a Napoli, J. Patrick Truhn, e inviato a tutti i dipartimenti e le agenzie Usa che si occupano di sicurezza. Il motivo dell’elevato interesse di Washington per i nostri boss è molto semplice: «Le organizzazioni criminali italiane finanziano indirettamente i gruppi terroristici in Colombia e in Asia centrale comprando la loro droga, minacciando la nostra sicurezza nazionale; attraverso la contraffazione e la pirateria informatica violano i diritti d’autore e la proprietà intellettuale americani; per l’Fbi sono presenti negli Stati Uniti grazie a legami secolari; costituiscono un potenziale rischio per l’incolumità e la salute dei nostri militari e dei turisti statunitensi in Italia; indeboliscono un alleato importante sul piano politico, economico e sociale». Peccato per la diplomazia Usa, nel nostro Paese «manca la volontà politica di combattere la mafia», nonostante sia ormai «la più grande impresa italiana che genera 90 miliardi di euro l’anno (il 7% del Pil) e conta 20mila “dipendenti”.

Il rapporto, diviso in tre differenti cable diffusi da Wikileaks, parte dal potere politico delle nostre mafie: «Cosa Nostra controllerebbe circa 150mila voti, sufficienti al raggiungimento dell’otto per cento richiesto al Senato». In alcune parti della Calabria, «la ’ndrangheta tocca il 20 per cento», mentre in Campania, «soltanto in provincia di Napoli si arriva al 10». Gli Stati Uniti fanno poi sapere che spingeranno il governo Berlusconi ad adottare una serie di misure: «Maggiori risorse alle forze dell’ordine», inviare «un numero notevolmente maggiore di magistrati antimafia in Calabria», perché quelli attuali «sono di gran lunga insufficienti», visto che in quella regione «c’è la maggiore organizzazione criminale del Paese». L’Italia dovrebbe inoltre «sradicare la corruzione che regna nei suoi porti», dove arrivano droga, armi e merci contraffatte. Perché, ad esempio, viste «le strette misure di sicurezza nello scalo calabrese di Gioia Tauro, il consolato ritiene che l’elevato flusso di droga in arrivo possa avvenire solo grazie alla complicità e all’aiuto di chi prende mazzette». Washington cercherà poi di aiutare Roma a «migliorare un sistema giudiziario imperfetto». Secondo gli Stati Uniti «per tenere la criminalità organizzata sotto controllo, i processi devono essere più efficienti, le sentenze più dure, le possibilità di appello limitate e non si può uscire dal carcere per decorrenza dei termini o errori procedurali».

C’è poi il problema delle carceri italiane «affollate e insufficienti». Il cable rivela che gli Stati Uniti proporranno al nostro governo «un piano basato sull’esperienza americana di costruzione, gestione e privatizzazione degli istituti penitenziari». Grandi elogi vengono rivolti alle associazioni antiracket e contro la mafia, perché l’opinione pubblica va «sensibilizzata sugli effetti deleteri del crimine organizzato, come è stato fatto negli Usa». L’obiettivo è «distruggere l’immagine glamour dei boss e far capire ai cittadini che il prezzo di una bottiglia di olio d’oliva, del vino o di salsa di pomodoro, nel migliore dei casi aumenta del 5 per cento a causa della criminalità organizzata, nel peggiore vengono adulterati».

I rapporti della polizia, parlano di «2.000 panifici illegali gestiti dalla camorra (2/3 di quelli campani) che utilizzano farina scaduta e forni che emettono fumi tossici, visto che bruciano legno di vecchie porte coperto di vernice. A Caserta ci sono fabbriche illegali di formaggio che mescolano latte di bufala con quello in polvere della Bolivia (riducendo i costi di 1/3), oppure utilizzano la calce nella ricotta per farla conservare più a lungo. Per un comandante dei carabinieri di Napoli, il business più fiorente resta il riciclo dei prodotti scaduti», continua il cable. Per «rompere la cultura dell’illegalità», secondo gli Usa, serve un «deciso intervento dello Stato con misure economiche e sociali, quali il sostegno occupazionale e il miglioramento dell’istruzione». Durante l’incontro tra il console Truhn e il procuratore capo di Napoli, Giandomenico Lepore, quest’ultimo «ci ha spiegato che i napoletani hanno qualcosa nel loro Dna che li induce a infrangere le regole». Tanto che «lo stesso Lepore, mentre lo diceva, si accendeva un sigaro in un’area non fumatori». Anche la «chiesa cattolica deve condannare in modo più esplicito» la mafia. «Imprese, associazioni, preti e gruppi di cittadini stanno scendendo in campo per combattere la criminalità organizzata, ma lo stesso non si può dire dei politici italiani, in particolare a livello nazionale». Il risultato è che «oggi le mafie colpiscono l’intero Paese e si sono radicate in modo preoccupante anche al Nord».

Gli Usa citano la Puglia come esperienza di «maggior successo», dove «la Sacra Corona Unita è stata quasi smantellata grazie ad un approccio multidimensionale, perché l’azione repressiva della forze dell’ordine da sola non basta». Segue la Sicilia per «l’arresto di centinaia di mafiosi e la ribellione della società civile». I problemi maggiori restano in Campania, perché «la camorra non è una organizzazione unica ma una moltitudine di bande armate e non c’è nessun boss la cui cattura potrebbe infliggere un significativo colpo». Maglia nera per la Calabria, dove «la guerra contro la ‘ndrangheta è resa ancora più difficile dall’affiliazione sulla base dei legami familiari, rendendola praticamente impermeabile». Al punto che il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, ha fatto notare agli statunitensi che soltanto 42 collaboratori di giustizia provengono dalla ‘ndrangheta, a fronte dei 700-1.000 di Cosa Nostra e dei 2.000 dalla camorra». A suo dire «non abbiamo leggi proporzionali alla forza della ‘ndrangheta». Gli fa eco Giuseppe Gennaro, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati e pubblico ministero a Catania, dove segue l’inchiesta sul governatore Raffaele Lombardo, per il quale «gli arresti non bastano». Il motivo? «Possiamo prendere quanti mafiosi vogliamo, ma la maggior parte vengono rilasciati nel giro di cinque anni», denuncia Gennaro.

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