Per la giornata dei diritti umani, il mio contributo. Ho un sogno in una tasca : Salifou il carpentiere

Da Harielle @hariellle

Oggi, 10 dicembre, si celebra la Giornata Mondiale dei Diritti Umani.

Il Concorso Lingua Madre  dà appuntamento online a chiunque volesse contribuire al tema dei diritti umani.

Io ho partecipato con un racconto, vincitore del concorso “La diversità dei sogni” del 2011, che ripubblico oggi.

Ecco il link dell’iniziativa: http://concorsolinguamadre.it/

Ho un sogno in una tasca, ho un sogno in ogni toppa del mio abito e lo voglio sognare ancora una volta.

Voi che passate lasciatemi stare: in fondo guardate solo al mio aspetto, al mio viso devastato, a  quegli stracci che coprono un corpo un tempo  bello e virile.

Ho un sogno anch’io, non lo credi anche tu, bella signora dagli occhi verdi che mi passi davanti sul marciapiede, rabbrividendo mentre mi scruti? Ha un sogno anche il venditore di braccialetti e monili, lo straniero che a te fa paura.

Si,  sono lo straniero che spaventa, sono l’uomo nero che viene dal sud,  il barbone informe che osserva senza fretta i passanti  che corrono verso treni che li attendono, donne che li aspettano, figli da riabbraciare.

Il mio sogno è per metà memoria per metà regressione, tanto che spesso non riesco a ricordare se sia realtà, passato, fantasia quel che è accaduto.

So che un tempo ero Salifou il carpentiere e vivevo ai margini della bella città sul mare, Abidjan,  Costa d’Avorio. Ero giovane e forte, almeno lo credevo ancora fino a poco tempo fa. Nel mio quartiere ero ascoltato e facevo opinione, perché non riuscivo a sopportare l’ingiustizia che mette l’uomo contro l’altro uomo, che rende i fratelli diseguali. Protestavo contro un governo disonesto e corrotto, organizzavo le manifestazioni di piazza con artigiani e studenti, coltivando la speranza di un domani diverso. Cantavamo come fossimo eterni, suonavamo reggae e hip hop per le strade. Amavo Nadja e lei non si accorgeva neppure di me.  Allora condividevamo tutti lo stesso sogno, e ci fu spezzato.

Le brigate della morte presero a girar per le campagne cercando studenti e manifestanti. Prima presero Camara, che era il nostro capo, un cantante reggae, la buona musica che tutti ascoltavamo e che parlava di ritorno alle nostre radici africane. Lo ammazzarono mentre usciva dal letto caldo di una donna, ancora col sorriso che le rivolse prima di salutarla. Poi trovarono Nadja, che era l’unica donna a manifestare con noi, e prima di ucciderla le fecero rimpiangere di esser nata femmina.

Poi presero me,mi arrestarono illegalmente, e pensai che mi avrebbero ucciso presto, ma non fu così. Mi tennero giorni e notti in un buco scavato nella terra, estraendomi fuori come un lombrico quando volevano interrogarmi. Volevano che parlassi dei miei contatti, che facessi nomi, che denunciassi gli altri. Ci sono state volte che avrei voluto farlo, ma qualcosa mi ha trattenuto dallo sputare quei nomi, forse le immagini del corpo di Nadja straziato dalle violenze, forse il pensiero che sarei presto tornato alla terra, l’ombelico da da cui tutti siamo nati.

Un giorno – non so se fosse mattina o pomeriggio – mi hanno tirato ancora fuori dal buco, mi hanno capovolto un secchio d’acqua addosso e qualcuno mi ha sussurrato : “Scappa”. Ho corso senza forze, senza fiato, senza sapere dove andassi, poi ho riconosciuto un villaggio vicino casa mia, in cui abitavano dei cugini. Mi hanno soccorso, mi hanno spiegato che mio padre aveva venduto il suo podere ai miei aguzzini e che aveva comprato non solo la mia libertà ma anche un passaporto falso e un biglietto per la Francia.

Senza poter neppure salutare la famiglia, due giorni dopo ero a Parigi dove contattavo dei connazionali che mi dicevano di allontanarmi ancora da questo paese, perché presto gli squadroni della morte mi avrebbero trovato anche qui. Ho preso ancora un treno con gli ultimi soldi rimastimi, e sono arrivato in Italia. Ho chiesto asilo politico e da allora vivo in attesa della risposta,  in un hotel demolito sul lido del mare, tra alghe in decomposizione e rumore delle onde.

Eccomi qui, belle signore che passeggiate per il Corso o che correte alla stazione, eccomi qui, uomo arrivato che hai paura dell’uomo nero, del barbone, del povero, del mendicante, dell’immigrato. Sono un rifugiato, eppure ho un sogno per ognuno dei tagli che mi fecero sul viso, le cicatrici che vi turbano e che porto anche nella mia anima. Ho un sogno per ognuno degli strappi del mio abito liso, per ciascuna delle ferite e del dolore che porto dentro.

Libertà si chiama il mio sogno, e giustizia, patria, democrazia. Salifou il carpentiere vende sogni.

HARIELLE ROSY DE LUCA

(racconto tratto da una narrazione vera raccontata all’autrice dal protagonista di questa  vicenda)



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