Una sera di fine anno, discutendo della mia attività intellettuale, un mio carissimo amico mi definì uno «storico delle idee». In un primo tempo, la definizione, dotta e accattivante, non mi dispiacque, ma poi riflettendoci meglio non mi è sembrata del tutto appropriata, poiché della mia ricerca coglieva soltanto qualche aspetto. Quando si parla di «storia delle idee», la mia mente va’ a Lovejoy, e, in particolare, a La Grande Catena dell’Essere, un saggio a cui sono particolarmente affezionato. Ma proprio perché conosco e apprezzo questo saggio ne riconosco anche i limiti, che mi portano a non condividerne a pieno l’impianto. Non indago le origini e la formazione delle idee nei loro «elementi chimici», come scrive Lovejoy, né seguo l’origine di un processo storico e culturale e il modo in cui esso si sviluppa. In un certo senso, alla definizione di «storico delle idee» avrei preferito di gran lunga quella di «storico» o «sociologo della cultura». Ma il termine «cultura» dovrebbe essere declinato in senso «antropologico», e non strettamente «umanistico», quale lo intese lo Jaeger della Paideia. In ogni caso, qualificarmi come tale significherebbe per me appropriarmi soltanto di un ambito della ricerca, tralasciando così tutto il resto. Dopo aver a lungo riflettuto, ho pensato che la definizione, che meglio riesca a cogliere il senso della mia attività di ricerca, credo sia quella di «analista del dominio». Con una brutta parola potrei scrivere una sorta di “kratologia”. Infatti, ciò che a me interessa indagare ad ogni livello e sotto qualsiasi aspetto sono i processi di dominio che i sistemi sociali mettono in atto al fine di autoperpetuarsi. Processi che si trovano stratificati a vari livelli: economico, politico, culturale, religioso, letterario, ecc. Ma prima di indagare questi rapporti di dominio a livello macro, a me interessa indagarli in primo luogo a livello quotidiano, al fine di analizzare come si originano, cambiano e si trasformano tali rapporti di potere tra i diversi attori sociali. Io mi considero, si potrebbe dire, un analista che medita sui rapporti di potere. Senza fare “filosofia della storia”, se con questa espressione si voglia intendere piegare la storia ai propri schemi, cerco di concettualizzare i processi storici e le strutture sociali che li sottendano. Ma prima di analizzarli a livello macro, occorre avere ben chiaro come i rapporti di potere, che danno forma a quelli di dominio, si dispongono e si distribuiscono nelle relazioni quotidiane. La saldatura tra i due piani (macro/micro) avviene proprio a questo livello. Non è possibile analizzare i meccanismi macrosociali di dominio se prima non si è compreso come questi meccanismi funzionano a livello microsociale.
Per mettere a questa strategia di ricerca ho dovuto studiare diverse discipline: la storia, l’epistemologia, la filosofia, l’antropologia, la psicoanalisi, la sociologia, ecc. che la divisione accademica del lavoro intellettuale ha finito con il separare. D’altra parte, gli ultimi campi di ricerca hanno messo in evidenza come non sia possibile operare in settori isolati, in ambiti strettamente chiusi e delimitati. La ricerca ha sempre bisogno di intersecare settori o campi una volta ritenuti inviolabili. La complessità sociale dei nostri tempi ha dimostrato come in realtà sia del tutto illusorio indagare un aspetto della realtà trascurando tutti gli altri fattori che non rientrano, all’apparenza, all’interno del nostro angolo visuale. Il sistema sociale sempre più è ritenuto come un vasto campo di relazione di natura diversa. Cosicché riflettere sul proprio passato o sul presente con delle categorie semplici e povere non sia più proponibile. All’interno di questa complessità, il rischio che si corre è smarrire completamente il senso della ricerca o creare intorno a noi un senso di vuoto.
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