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“Per ridare un volto a Buddha”, update sulla missione archeologica italiana in Pakistan de IlSole24Ore

Creato il 30 ottobre 2012 da Wally26

Articolo di Cinzia del Maso apparso su: IlSole24Ore

Per due volte hanno provato ad abbattere l’”idolo di pietra”, il grande Buddha di Jahanabad. Nel settembre 2007 i talebani hanno posizionato esplosivo sulle spalle e sul volto della bella immagine ricavata a rilievo da una parete di roccia della valle dello Swat, nel montuoso Pakistan nord-occidentale. Ma solo il volto si è frantumato. Era l’unico volto di Buddha sopravvissuto indenne alle violenze islamiche dei secoli passati, e ora difficilmente si potrà ricostruire. Sperava di farcela, Luca Maria Olivieri direttore della Missione archeologica italiana nello Swat: sperava di ritrovare a terra frammenti sufficienti a riplasmare quell’immagine di serenità. Ma poi si è rassegnato a consolidare e mettere in sicurezza quel che c’è, grazie al lavoro certosino del restauratore Fabio Colombo e dei suoi allievi pakistani. Torneranno entrambi in autunno con esperti dell’Università di Padova per eseguire una scansione laser del rilievo, che consentirà forse di ridisegnare almeno l’ovale di quel volto enorme. Si vedrà, l’operazione è delicata e, soprattutto, la situazione nello Swat non è ancora tornata alla piena normalità dopo la guerra che nel 2009 ha cacciato i talebani dalla valle: «non si vedono più in giro, ma potrebbero infiltrarsi in qualsiasi momento», dice Olivieri. E i militari controllano tutto, incluso l’accesso alla valle: «Attualmente, siamo gli unici stranieri che ci lavorano stabilmente».

Non sono però né incoscienti né temerari, ma seri professionisti che in Pakistan hanno costruito rapporti di lavoro e fiducia solidi e duraturi. Olivieri è l’erede del grande orientalista Giuseppe Tucci che giunse nella valle nel 1955 alla ricerca dei capolavori dell’arte del Gandhara, sublime commistione di rigore ellenico e spiritualità buddista. Da allora gli italiani non hanno più abbandonato lo Swat, studiando e scoprendo i mille tesori induisti, greci, buddisti e islamici di questa importante valle di passaggio nel cuore dell’Asia centrale. Non l’hanno lasciata neppure nel 2001 quando i Talebani hanno attaccato le rovine del tempio induista di Barikot dove la Missione scavava, legato i custodi e distrutto a picconate il podio del tempio. Neppure durante la lunga stagione di attentati cruenti del 2007 e la guerra del 2009, quando Olivieri da Islamabad è rimasto in costante contatto coi suoi collaboratori nella valle, garantendo loro lo stipendio ogni mese.

Così alcuni di loro non sono fuggiti ma hanno persino vigilato la sede della Missione mentre fuori brillavano le bombe e la gente moriva. Ecco perché oggi la Missione archeologica italiana è una realtà importante per tutto il Paese, non solo nello Swat. Ai tempi della guerra, i grandi proprietari terrieri furono i primi a mettersi in salvo abbandonando la valle e i propri mezzadri, interrompendo così una tradizione di rapporti feudali millenaria. Per un certo periodo i talebani hanno colmato col terrore quel vuoto di potere, e ora la gente sta costruendo a fatica una nuova società. Dunque la Missione italiana è uno dei pochi elementi di continuità rimasti, e anche per questo Olivieri è riuscito a ottenere un finanziamento di due milioni di euro dal bilancio di riconversione del debito pakistano verso l’Italia (il progetto è denominato ACT-Field School). Sono fondi destinati ad aiutare le genti pakistane colpite dalla guerra e dall’esodo: per favorire la ricostruzione economica e sociale, e insegnare loro dei mestieri. Olivieri, assieme al suo condirettore pakistano Shah Nazar Khan, sta formando in tre anni (2011-2013) circa 270 persone tra archeologi, restauratori, custodi e guide turistiche, e lo fa attraverso lo scavo, il restauro e la conservazione di undici siti archeologici della valle. Non è un lavoro facile tra infiniti problemi di sicurezza e mobilità, e giustamente Olivieri ne racconta con orgoglio i risultati, piuttosto che ricordare le più avventurose imprese ai tempi della guerra: «quelle oramai sono passate, mentre ora dobbiamo pensare a ricostruire».

Innanzitutto si deve ricostruire e riorganizzare il museo dello Swat che Tucci inaugurò già nel 1963, ma nel 2005 fu danneggiato dal terremoto e nel 2009 dalla bomba scoppiata proprio di fronte (che per fortuna ha danneggiato solo l’edificio). Lì i lavori, su progetto dell’architetto Ivano Marati, sono già a buon punto. Poi si deve restaurare, come si è fatto al tempio buddista di Gumbat, la cui cella con doppia volta viene occasionalmente trasformata in moschea.

“Per ridare un volto a Buddha”, update sulla missione archeologica italiana in Pakistan de IlSole24Ore

Nella foto: Francesco Martore

O allo stupa di Saidu Sharif con la direzione dell’architetto Giuseppe Morganti e di Francesco Martore, o come si sta facendo ora al Buddha di Jahanabad e alla moschea ghaznavide di Udegram. Infine si deve scavare, soprattutto nei luoghi aggrediti dai clandestini che con la guerra sono aumentati sempre più, e cercare di salvare il salvabile. Olivieri racconta quasi con orrore lo scavo di salvataggio attorno allo stupa di Amluk-dara, dove i clandestini avevano scavato tunnel e pozzi a non finire: «sembrava un termitaio: ricostruire una stratigrafia rigorosa è stata una vera impresa». Ma racconta anche l’interessantissimo scavo delle necropoli di Udegram e Godara, eseguito dagli archeologi Massimo Vidale e Michele Cubitò assieme a studenti universitari pakistani, dove si è capito che i sepolcri in pietra erano circondati da recinti lignei e si è dato così corpo alle parole dello storico Curzio Rufo: descrivendo l’arrivo di Alessandro Magno a Nisa, dice che «siccome i sepolcri erano fatti di vecchio cedro, il fuoco (acceso lì dai soldati) si spandeva». Infine lo scavo più impegnativo, quello dell’immensa città di Barikot, fondata nel II secolo a.C. e abbandonata verso il V d.C., di cui si sta cominciando a comprendere la configurazione urbanistica grazie anche al restauro di parte delle mura indo-greche.

È chiaro che tutto questo lavoro risulterà utile solo se i turisti torneranno nella valle come un tempo, quando lo Swat era la “Svizzera d’Asia”, il paradiso montano scelto per la villeggiatura estiva dall’alta società di Islamabad. Allora il turismo era la seconda fonte di reddito della valle dopo l’agricoltura, mentre ora i villeggianti hanno scelto altre mete.
Qualcuno però sta già cominciando a tornare. E tutti sperano che tornino in tanti, sia pakistani che stranieri, assieme alla ritrovata normalità.


Filed under: Archeologia, Pakistan


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