Per salvare le banche occorre salvare i clienti

Creato il 21 ottobre 2013 da Keynesblog @keynesblog

di Guglielmo Forges Davanzati da Micromega on line

Fra le misure contenute nella Legge di Stabilità 2014, è significativa la norma che consente la deducibilità delle perdite sui crediti bancari, abbreviandone il periodo, rispetto alla normativa precedente e a vantaggio delle banche, da 18 a 5 anni. La ratio la si ritrova nella convinzione che la restrizione del credito in atto dipende dalla sottocapitalizzazione delle nostre banche e che, dunque, per incentivarle a erogare prestiti si rendono necessari interventi che ne riducano il rischio di perdite. Si tratta di una disposizione che recepisce gli orientamenti teorici prevalenti, che imputano la stretta creditizia a fattori che possono considerarsi “interni” al sistema bancario.

Si argomenta, in particolare, che è in atto un cambiamento delle modalità di gestione del rischio da parte delle banche, che le induce a valutare in modo più prudente la potenziale solvibilità dei debitori (http://www.oecd.org/finance/financial-markets/48501035.pdf). L’aumento dell’avversione al rischio viene imputato all’avidità e all’incompetenza di chi gestisce gli Istituti di credito (Brummer, 2009) o ai modesti incentivi che ricevono i manager delle banche (Fahlenbract and Stulz, 2010) o ancora viene fatto dipendere dalla bassa capitalizzazione del sistema bancario: in altri termini, si ritiene che le banche, avendo accumulato elevate “sofferenze” (a loro volta derivate dall’impossibilità di recuperare crediti concessi), sarebbero diventate sempre meno disponibili a erogare credito, sia alle imprese sia alle famiglie.

Si tratta di tesi estremamente opinabili, per le seguenti ragioni.

a) Non è chiaro se e in quale misura il sistema bancario europeo è sottocapitalizzato. Nel Rapporto del gennaio 2013, l’OCSE ha evidenziato che a essere sottocapitalizzate sono molte banche francesi e tedesche, a fronte della sostanziale “solidità” patrimoniale delle nostre (http://www.trend-online.com/prp/ocse-banche-sttocapitalizzate-140113/). Questo dato smentisce – quantomeno con riferimento all’Italia – la tesi secondo la quale la restrizione del credito dipende da scarsità di risorse nei portafogli delle banche, soprattutto se si considera che il fenomeno è maggiormente accentuato, fra i Paesi europei, proprio in Italia.

b) E’ implicita, nella visione dominante, la convinzione stando alla quale le banche sono imprese a tutti gli effetti identiche alle imprese produttrici di beni e servizi. Si può rilevare, a riguardo, che il fallimento di una banca non è affatto indipendente da scelte di ordine propriamente politico, per due ragioni. Innanzitutto, i governi hanno interesse (se non l’obbligo normativo) di tutelare i risparmiatori. In secondo luogo, il fallimento di una banca (soprattutto se di grandi dimensioni) può innescare processi di “contagio” a danno dell’intero sistema bancario, con effetti decisamente indesiderati per i governi. In tal senso, vi è una fondamentale differenza fra il fallimento di una banca e il fallimento di un’impresa (soprattutto se di piccole dimensioni): nel primo caso, è ben difficile che la banca centrale o il governo ne rifiuti il “salvataggio”.

A ben vedere, vi sono ragionevoli considerazioni che inducono a ritenere che la restrizione del credito sia causata da altri fattori. D’altra parte, se l’intero sistema bancario italiano non è sottocapitalizzato e opera in un contesto di politiche monetarie espansive (potendo, quindi, ottenere facilmente liquidità dalla banca centrale), per quali ragioni le banche italiane dovrebbero ridurre l’offerta di credito? Per provare a dare risposta a questa domanda, con la massima schematizzazione, si può far riferimento alla seguente sequenza di eventi determinatasi, nei fatti, in Europa nel corso degli ultimi anni. Le politiche di austerità hanno generato recessione. La recessione ha generato riduzione dei profitti e fallimenti di imprese. Si è ridotta, conseguentemente, la solvibilità delle imprese e l’erogazione di credito da parte delle banche è diventata sempre meno conveniente. La restrizione del credito – in quanto ha contribuito a generare riduzione degli investimenti – ha accentuato l’entità della recessione. Su questi tre passaggi si è giocato (e si gioca), in estrema sintesi, il circolo vizioso nel quale è precipitata l’Unione Monetaria Europea, con particolare riferimento ai c.d. Paesi periferici (Italia inclusa): quanto meno lo Stato spende (e/o quanto più tassa), tanto più riduce la domanda aggregata e quanto più si riduce la domanda aggregata tanto più il sistema bancario riduce l’offerta di credito a imprese e famiglie, contribuendo, per questa via, a generare un circolo vizioso propagato da ulteriori contrazioni di consumi e investimenti.  A ciò si è aggiunta l’intensificazione dell’attività speculativa delle banche, che è parte essenziale del problema (http://keynesblog.com/2013/08/09/politiche-monetarie-espansive-e-restizione-del-credito/)

Occorre sottolineare che né le politiche di austerità né la restrizione del credito ha danneggiato tutte le imprese: entrambi i fenomeni sottintendono l’accentuarsi dei conflitti intercapitalistici fra imprese di grandi dimensioni (nella gran parte dei casi con elevata propensione a esportare e collocate nelle aree centrali dell’Unione Monetaria Europea) e le imprese di piccole dimensioni (nella gran parte dei casi operanti su mercati interni e collocate nelle aree periferiche dell’eurozona).  In altri termini, le grandi imprese beneficiano delle politiche di austerità e non sono danneggiate dalla restrizione del credito. Ciò a ragione del fatto che queste politiche producono incrementi di disoccupazione e conseguente calo dei salari. Il che consente loro di ridurre i costi di produzione, migliorando la competitività sui mercati internazionali e ottenendo, per questa via, profitti crescenti. In più, le imprese esportatrici possono orientare l’azione dei governi disponendo della “minaccia” di delocalizzazione. Per contro, le imprese di piccole dimensioni che operano su mercati locali hanno la convenienza opposta: la riduzione della spesa pubblica riduce, per loro, i mercati di sbocco, determinando calo dei profitti e fallimenti.

Il credit crunch non riguarda le grandi imprese, per tre ragioni. In primo luogo, esse possono ottenere facilmente finanziamenti senza transitare per il canale bancario, ma attingendo risorse direttamente sui mercati finanziari (cf. Gambacorta and Marques-Ibanez, 2011). In secondo luogo, data la presunzione per la quale sono “troppo grandi per fallire”, hanno comunque accesso al finanziamento bancario. In terzo luogo, in ragione dei più alti profitti che realizzano rispetto a imprese di piccole dimensioni, possono più facilmente auto-finanziare i loro investimenti.

Se questa diagnosi è corretta, detassare le banche per indurle a concedere prestiti non è una buona idea. Al più, la detassazione può costituire una condizione permissiva per l’aumento dell’offerta di credito ma non agisce sulla convenienza a farlo (al più accresce i profitti netti delle banche). Ancora una volta, il problema sul quale non si intende intervenire è la carenza di domanda interna: se non si interviene per accrescerla, il circolo vizioso che va dalla riduzione della spesa pubblica alla restrizione del credito non viene fermato, né attenuato. E la Legge di Stabilità non solo non agisce in modo significativo sul rilancio dei consumi e degli investimenti, ma, per quanto riguarda la spesa pubblica e la tassazione, ripropone, di fatto. misure di austerità (http://keynesblog.com/2013/10/16/un-letta-e-per-sempre/).  

Riferimenti bibliografici

Balke, N.S. and Zeng, Z. (2011). Credit demand, credit supply and economic activity, mimeo.

Brummer, A. (2009). How greed and incompetence sparked the credit crunch. London: Business Books.

Fahlenbract, R. and Stulz, R.M. (2010). Bank CEO incentives and the credit crisis, mimeo.  

Gambacorta, L. and Marques-Ibanez, D. (2011). The bank lending channel: lessons from the crisis, May, working paper BIS n.345.

Graziani, A. (2003). The monetary theory of production. Cambridge: Cambridge University Press.


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