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Kathy Lette Il bambino che cadde sulla Terra
Da quando il padre di Merlin, Jeremy, se n’è andato – subito dopo la diagnosi di autismo – lasciando lei e il figlio, Lucy ha fatto di Merlin il centro del suo mondo. Alle prese con le gioie e le difficoltà di crescere un bambino eccentricamente adorabile, ma impegnativo (se soltanto Merlin fosse arrivato con un manuale di istruzioni!), Lucy non ha tempo per altri uomini nella propria vita, perciò perché darsi la pena di cercarne uno? Quando Merlin compie dieci anni, Lucy comincia seriamente a preoccuparsi che il Papa possa contattarla per chiederle suggerimenti in materia di castità, perciò decide di rimettere piede (per quanto il pedicure lasci a desiderare) nel mondo degli uomini. Ma a causa della bizzarria di Merlin, le cose non vanno come aveva immaginato. Tuttavia, proprio quando Lucy sta per rassegnarsi a una vita da single, ecco che Archie – il più perfetto, per lei e per suo figlio, degli uomini imperfetti – bussa alla sua porta. E lo stesso fa Jeremy, pronto a implorare perdono e una seconda possibilità… Di cosa ha bisogno Lucy? Di un vero padre per Merlin o di un compagno affidabile per se stessa?
Crescere un figlio affetto da una sindrome appartenente allo spettro autistico è come mettere insieme un puzzle gigante senza nemmeno il beneficio della figura sulla scatola. Non esiste un manuale delle istruzioni. È come trovare un neonato ai piedi di un’astronave, portarlo a casa e crescerlo come se fosse tuo figlio. So tutto questo perché a Julius, mio figlio, fu diagnosticata una sindrome autistica all’età di tre anni. Scioccata, rimasi seduta in silenzio in un tetro ospedale vittoriano mentre un medico m’informava che il mio adorato bambino soffriva di un disordine comportamentale. Ricordo la voce del pediatra – il tono leggero e falsamente allegro – e fu in quel momento che capii che la faccenda era veramente seria. Mio figlio aveva iniziato a camminare e parlare precocemente. Era incredibilmente vivace, persino più avanti per la sua età. Poi, improvvisamente, a quattordici mesi, smise di parlare. Credevo si trattasse semplicemente di un caso cronico di otite media sieromucosa o di un’altra malattia di minore importanza, perciò il termine «autismo» mi colpì come una pugnalata. Una diagnosi come questa ti trascina nella corrente fino a farti sprofondare nelle tenebre più profonde. Il medico aveva ridotto il mio splendido bimbo a un termine asettico, in bianco e nero. Ma per me, il mio piccolo vibrava di mille colori. Sentii un impeto d’amore sprigionarsi dalle viscere e invadermi il cuore. Il mio bambino era diventato una pianta in una stanza buia ed era compito mio riportarlo alla luce. Provai incredulità, poi sgomento e, infine, l’amore protettivo di una leonessa. Negare è la normale reazione dei genitori nella mia situazione, da qui gli anni di terapie mediche alternative, arrancando in un labirinto di assistenti sociali, terapisti della parola e occupazionali, e psicologi pediatrici. Per anni ho girato ovunque, nell’infinita ricerca di esperti. Mio figlio fu sottoposto a così tanti esami che deve aver pensato di essere stato arruolato nel programma di addestramento d’elite per le missioni sulla luna. Tentai di tutto, dal massaggio craniale alla cura del karma, passando per altre aree di competenza scientifica basate su una dottrina medica rigorosamente e metodologicamente provata da Goldie Hawn e altri accademici di fama. Saltai da psicanalisti a professionisti del biofeedback, da nuove correnti del voodoo ad altre folli discipline, finché al mio bambino interiore non venne da vomitare. (Odio ripensare adesso a quanti figli di medici ho finanziato l’università. Quando prenotate una visita privata, assicuratevi di annotarvi dove avete parcheggiato l’auto, perché sarete probabilmente costretti a venderla per pagare la fattura astronomica.) Poi arrivò il senso di colpa. Quando a una madre viene detto che suo figlio ha dei bisogni speciali, la sua ghiandola della colpa si mette a pulsare. È stato qualcosa che ho mangiato durante la gravidanza? La crescenza? Il sushi? Il bicchiere di vino che non avrei dovuto bere nell’ultimo trimestre? È qualcosa che invece avrei dovuto bere, come il frullato di barbabietola? Qualcosa che non ho mangiato? Forse del tofu biologico? O forse mi sono rimpinzata troppo? Non mangiavo solo per due, bensì per Pavarotti e la sua famiglia allargata… Se solo avessi purificato la mia aura con il feng shui durante le lezioni di yogalates (yoga+pilates) cantilenando al ritmo dei richiami delle balene come Gwyneth Paltrow e gli altri fanatici del biologico. Infine, molti, moltissimi esperti, esami e scuole dopo, a mio figlio fu ri-diagnosticata la sindrome di Asperger, che si trova all’estremità delle sindromi meglio funzionanti dello spettro autistico. Non ho mai parlato pubblicamente del mio meraviglioso e originale ragazzo. Ma due anni fa iniziai a scrivere il mio undicesimo romanzo e, d’un tratto, dalla mia penna cominciò a uscire la storia di una madre single che si ritrova a crescere un figlio affetto dalla sindrome di Asperger. Dato che Il ragazzo caduto sulla terra è una storia inventata (mio marito è un uomo adorabile e di grande sostegno), non avevo programmato di lasciar trapelare la mia esperienza personale. Avrei semplicemente lasciato che il romanzo camminasse sulle proprie gambe… Ma poi un giornalista mi domandò di punto in bianco se fosse vero che mio figlio era affetto dalla sindrome di Asperger. Rimasi sconcertata. Mentire avrebbe potuto implicare che mi sentissi in imbarazzo per mio figlio, quando in realtà è tutto il contrario. Sono straordinariamente orgogliosa di lui. Dato che oggi mio figlio ha ventun anni, decisi di chiedergli la sua opinione. Jules adora il romanzo ed è certo, parole sue, «che aiuterà le persone a essere più comprensive e meno giudicanti». Spera che il libro incoraggi l’accettazione di eccentricità, idiosincrasie e differenze. E che mostri gli «aspergini» in tutta la loro peculiare, anti-conformista e brillante gloria. Non che vivere con un figlio con la sindrome di Asperger non presenti le sue sfide. Gli operatori sociali dicono a Lucy, la protagonista del mio romanzo, che crescere un figlio con queste caratteristiche sarà un’impresa, anche se eccitante… Questa affermazione va di pari passo con le parole del capitano del Titanic quando informò i suoi passeggeri che stavano per fare un piacevole tuffo in mare. Per prima cosa, ci sono i continui episodi di bullismo. I bambini con bisogni speciali vengono spesso derisi perché diversi, picchiati oppure costretti a girare con biglietti recitanti: «Dammi un calcio. Sono un ritardato». Suscita forse meraviglia che i genitori siano esageratamente protettivi? Il fatto è che cercare di proteggere un bambino con la sindrome di Asperger è come tentare d’impedire al ghiaccio di sciogliersi nel deserto. La cosa più difficile da fare è smettere di tenerlo nella bambagia permettendogli di crescere e di avventurarsi nel mondo brutto e cattivo affollato di sconosciuti e pericoli. Per anni non ho permesso a Jules di uscire di casa senza una lista di istruzioni lunga quanto Guerra e pace e provviste sufficienti nello zaino per fondare un insediamento nella giungla. (Lucy, la madre del mio romanzo, è così protettiva che i suoi amici e parenti non riescono a credere che abbia lasciato uscire suo figlio… dall’utero, s’intende.) Anche l’istruzione è un incubo costante. I bambini appartenenti allo spettro autistico sono complessi. E ottenere aiuto è una vera e propria lotteria. Il sistema è stato progettato con dei dossi burocratici di rallentamento per frenare l’avanzamento di un genitore. Ma una cosa è chiara: mettere un bambino con bisogni speciali in una scuola tradizionale è inutile quanto far fare il bagno a un pesce. Gli insegnanti superstressati ed esauriti delle scuole pubbliche trattano spesso gli allievi con bisogni speciali come se fossero delle creature rare e selvagge appena catturate nella giungla amazzonica e ancora in fase di adattamento alla cattività. E come dargliene la colpa? Allievi di questo tipo necessitano di specialisti che insegnino in scuole particolari, che le amministrazioni comunali sono riluttanti a finanziare. In città, scuola «tradizionale» significa infilare il proprio figlio con la sindrome di Asperger in una classe già sovraffollata, talvolta insieme ad altri quaranta ragazzini, diversi dei quali non parlano inglese. Quando gli insegnanti non sono alle prese con una conoscenza elementare di somalo, hindi, swahili, rumeno, russo, tswana, arabo e, probabilmente, klingon, stanno probabilmente cercando di far fronte a una varietà di bambini con bisogni speciali oltre che ai loro inadeguati insegnanti di sostegno, al punto di ritrovarsi in quarantaquattro all’interno di una stanza minuscola. Lì dentro persino una sardina soffrirebbe di claustrofobia. Rimproverati perché pigri, puniti perché disturbano, messi in castigo per non aver capito come eseguire i compiti, non stupisce che, nonostante il loro elevato QI, l’unica materia nella quale i bambini con la sindrome di Asperger eccellano durante gli anni di scuola sia «telefonare per darsi malati». In questo sarebbero da 10 e potrebbero diplomarsi in scarsa autostima. La maggior parte dei bambini fatica a imparare la matematica e la grammatica. I bambini con la sindrome di Asperger lottano per rendersi invisibili. L’unico modo per andare avanti è affidarsi a un cupo senso dell’umorismo. Lucy, la mia protagonista, afferma che la sua seconda esperienza preferita di madre consiste nel parlare con gli insegnanti del progresso scolastico di suo figlio… La prima è sbattere ripetutamente l’alluce nell’aspirapolvere finché non incancrenisce. Purtroppo, le liste di attesa negli istituti speciali sono così lunghe che all’ingresso è possibile imbattersi in famiglie dell’Età della Pietra, il che implica un’infinita attività di persuasione e supplica presso le autorità locali affinché assolvano gli obblighi stabiliti dalla dichiarazione di bisogni speciali di tuo figlio. Ho riempito un’intera foresta di formulari e incontrato squadroni di psicologi educativi, la maggior parte dei quali, per vivere, ti guarda dall’alto in basso. Il termine tecnico per definire questo processo è «venir smistati da un posto all’altro». E poi c’è l’isolamento sociale. Il genitore di un bambino con bisogni speciali soffre di una strisciante solitudine. Vedere i figli dei tuoi amici sbocciare, prendere 10 a scuola, partire per le vacanze sugli sci e fare esperienze di lavoro a «Vogue» o negli studi dei migliori avvocati, è come morire di fame fuori dalla sala di un banchetto con gli aromi più deliziosi che escono dalla finestra fino a farti impazzire. Se solo esistesse un manuale di auto-aiuto per i lebbrosi sociali. Come Lucy pian piano scopre, la buca della sabbia nel parco giochi diventa una distesa di sabbie mobili, in quanto gli altri genitori, temendo un contagio, ti abbandonano in un silenzio obnubilante. «Un comportamento insolito è spesso valutato dagli insegnanti e dai proprietari di esercizi commerciali come una forma di cattiva educazione in famiglia, sottolineata dal tagliente rimprovero che sei, naturalmente, “un moccioso viziato”.» Troppo spesso i genitori di bambini con bisogni speciali soffrono in silenzio. Oltre che basato sulle mie numerose esperienze, il romanzo prende anche spunto dalle vite di tutti gli impavidi genitori che ho conosciuto, intrappolati in una lotta annientante per ottenere la giusta istruzione e un sostegno medico. Il genitore di un bambino con bisogni speciali deve essere il suo rappresentante legale, e combattere per la sua educazione dall’angolo di un ring; uno scienziato a tempo pieno, pronto a mettere alla prova i medici e a fare domande sui farmaci; un amministratore delegato, in grado di prendere delle difficili decisioni per conto del figlio e, inoltre, una guardia del corpo e buttafuori 24 ore su 24. Ma se le infinite terapie mediche ci hanno dilapidato e combattere la burocrazia scolastica è stato estenuante, vivere con il mio delizioso e originale ragazzo è stato anche fonte di tanta gioia e divertimento. Questo perché le persone con la sindrome di Asperger, o «sindrome dell’Asparago», come la chiama lui, osservano la vita dall’altra estremità del telescopio. Possiedono una logica letterale, laterale e tangente che può essere disarmante in modo affascinante. «Che cos’è la velocità del buio?» mi domandò una volta mio figlio. E «se nei bar c’è l’happy hour, allora esiste anche un’ora triste?» Oppure «un’arpa è un pianoforte nudo?» Non fa che pormi domande alle quali non so rispondere come, per esempio, se sulla luna si può giocare con lo yo-yo, perché gli uomini hanno i capezzoli e, argomento più delicato, perché le nazioni fanno la guerra per dimostrare ad altre che la guerra è sbagliata. A cinque anni mi spiegò che il tempo non è nient’altro che il modo a disposizione dell’Universo per fermare tutto d’un colpo. «E se Macbeth fosse andato da un “dottore che parla”, non avrebbe ucciso Duncan.» Quando una maestra dell’asilo gli chiese cosa volesse essere da grande, lui rispose, secondo logica, «più alto». Poi le domandò a sua volta se preferisse essere assorbente o traspirante. «Quando una volta gli sussurrai che l’esponente politica che stavamo per incontrare aveva “due facce”, mi chiese subito perché, se aveva due facce, indossasse proprio quella, così vecchia e rugosa.» Ma dietro questo pensiero laterale possono nascondersi dei pericoli. Quando, all’età di dodici anni, gli dissi di chiudere la porta a chiave perché non entrassero i ladri a rubarmi i gioielli, per poi tornare a casa e trovare l’ingresso socchiuso, mio figlio ribatté, perplesso: «Be’, perché degli uomini dovrebbero volere dei gioielli?» «Quando parlo delle mie forbici buone, per esempio: “Qualcuno ha visto le mie forbici buone?”, lui pensa che ce ne siano anche di cattive, con tendenze malvagie e omicide… Quando dico “Dovrai lottare per avere l’ultimo cupcake”, lui si prepara a fare a pugni.» E dubito che le sue prospettive scolastiche fossero migliorate dopo che ebbe domandato al suo temibile preside che colore di capelli avesse indicato sulla patente, dato che era completamente calvo. Una simile franchezza spesso mi fa sudare più di Paris Hilton alle prese con un sudoku. Il momento peggiore fu quando chiese a un motociclistica muscoloso e pieno di tatuaggi fermo all’angolo della strada se avesse mai notato che il suo mento assomigliava a dei testicoli capovolti. In momenti come questi la mia unica tecnica di sopravvivenza consiste nel guardarmi intorno con innocenza e ripetere a chiunque mi capiti vicino: «Chi è questo bambino e perché mi chiama mamma?» Come potete immaginare, questo eccentrico candore è alla base di numerose situazioni sociali comiche che ho cercato di descrivere nel libro. Fondamentalmente, quando ci si ritrova a crescere un bambino con la sindrome di Asperger, la cosa migliore è semplicemente legarsi in testa un ammortizzatore di shock. Poiché le persone affette dalla sindrome di Asperger non possiedono alcun filtro, esse dicono sempre quello che pensano, il che significa che i loro genitori sono eternamente costretti a camminare in punta di piedi su un campo sociale minato. Non sai mai quando salterai per aria. Per esempio, una sera avevamo a cena una famosa star del cinema (ecco, non m’interessa vincere la medaglia d’oro nella gara a chi la spara più grossa, ma si trattava di Hugh Jackman) e mi ero abbandonata a un leggero flirt australiano. Nella mia mente annebbiata già immaginavo entrambi che lasciavamo i rispettivi consorti per poi fuggire ai Caraibi, quando mio figlio, allora tredicenne, entrò nella stanza. Mi alzai subito per abbracciarlo e baciarlo, buttando lì un commento casuale sul fatto che gli stavano crescendo dei baffetti. Mio figlio mi squadrò come si deve, poi replicò: «Anche a te». Avrei potuto cuocermi delle patatine fritte sulle guance. «Vedi tutti quei peli sul tuo labbro superiore? Sono milioni. Ne hai un paio anche sul mento.» Se solo avessi seguito l’esempio di madre natura e mi fossi mangiata il cucciolo appena nato, mi dissi, inorridita. È risaputo che la creatività sia associata a un certo numero di disordini cognitivi. H.G. Wells era così strano da avere, a scuola, un unico amico. Albert Einstein accettò un impiego in un ufficio brevetti perché aveva un atteggiamento troppo antisociale per lavorare in un’università. Isaac Newton era in grado di lavorare tre giorni di fila senza interruzione, ma non sapeva sostenere una conversazione. Gli studiosi ritengono oggi che Mozart, Van Gogh, Andy Warhol, Orwell, Charles de Gaulle, Thomas Jefferson, Enoch Powell, e persino il Mr Darcy di Jane Austen, così come molti famosi compositori e artisti, appartenessero allo spettro autistico. In Gran Bretagna ci sono due milioni di bambini con bisogni speciali, cioè uno su cinque. Il governo ha dichiarato di voler rimuovere almeno 170.000 bambini dal registro di coloro che sono affetti da bisogni speciali. Ma come puoi fare una cosa del genere quando questi bambini hanno dei bisogni speciali? Con questa valanga di tagli, a rimetterci nella lotta per accaparrarsi i fondi sono i bambini con disabilità meno gravi come la sindrome di Asperger o l’autismo. Il loro handicap può essere meno evidente di quello di chi si trova su una sedia a rotelle o si sposta con un bastone bianco, ma anche loro hanno bisogno e meritano aiuto e la promessa di una vita non sprecata a letto mantenuti dai sussidi. La Giornata mondiale dell’autismo, stabilita per il 2 di aprile, ci induce a riflettere sul fatto che i tassi di povertà, divorzio, depressione e disoccupazione sono molto più alti nelle famiglie con bambini affetti da bisogni speciali. Le persone con la sindrome di Asperger possono non dare un contributo in termini convenzionali, ma ciò non significa che siano individui di minor valore e spetta a noi aiutarli a «sbocciare», iniziando con lo sradicare il preconcetto che esclude coloro che hanno una disabilità dalle normali attività della vita quotidiana. Non amo i termini «normale» e «anormale» Preferisco «abituale» e «straordinario». E questi bambini straordinari hanno così tanto da offrire, che è un atto criminale dilapidare i loro innumerevoli talenti. Gli specialisti, con i loro spray nasali all’oxitocina e il ricollegamento del circuito neurale, prefigurano una «cura» contro l’autismo entro i prossimi cinquant’anni. Ma così perderemo i nostri geniali scienziati, gli artisti virtuosi e innovativi? Perché non aiutarli semplicemente a sviluppare il loro pieno potenziale? Il mio brillante e originale ragazzo è oggi un volontario di Oxfam e sta seguendo un corso per diventare speaker radiofonico. Con la sua enciclopedica conoscenza in materia di sport (è una sorta di Wikipedia vivente), spera di diventare un giorno il commentatore sportivo più bizzarro del mondo, se solo qualcuno gliene darà l’opportunità. Con amore, sostegno e incoraggiamento, queste persone uniche potranno mettere a frutto il loro incredibile potenziale. Spero che il mio romanzo sia d’aiuto nel de-stigmatizzare la condizione di chi soffre della sindrome di Asperger promuovendo nel contempo tolleranza, comprensione e accettazione. E che offra un po’ di buffa consolazione e un necessario senso di appartenenza a quelle migliaia di genitori che lottano per crescere dei bambini speciali. Perché tentare di farcela da soli produce lo stesso risultato del voler affrontare Lord Voldemort con un coltello da burro. Le persone con la sindrome di Asperger hanno spesso la sensazione di annegare nelle proprie onde cerebrali. Mi auguro che questo libro, nel suo piccolo, possa agire da gommone di salvataggio letterario.
Kathy Lette
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