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Match Point è la storia di un partita a tennis con la vita, un gioco che segna la rivalsa di Chris, il segno del suo riscatto, l'adesione a un'ambizione di vita più vera per chi vuole "lasciare il segno". Il ragazzo si inserisce facilmente nel cuore della vita famiglia Hewett, diventando l'istruttore di tennis di Tom (Matthew Goode) e il marito della figlia Chloe (Emily Mortimer), nonché la punta di diamante dell'azienda e il genero amato dai genitori di lei.
Tutto sembra perfetto finché Chris non decide di giocare una partita più grande di lui, una partita prevedibile e rapida, che non si esaurisce, però, nel suo gioco. Match Point non è un film di denuncia sociale, ma l'enfant prodige della finanza, passato dalle racchette agli accordi internazionali, ai pomeriggi alle mostre d'arte contemporanea, alle serate al Covent Garden.
La vicenda di Chris, Tom, Chloe e Nola si svolge, appunto, all'insegna del melodramma: viene condotta con le sue regole e con le conseguenti attese. Prevedibile, in sostanza, fino all'ultima inquadratura, non perde per questo di mordente ed è il ruolo a determinare le azioni e lo svolgimento del plot: una storia di gelosia, di passione, e di bugie nella vita di due coppie e di una famiglia che le riunisce al riparo di un prestigioso cognome.
Solo che le menzogne, qui, non si riducono alla ricerca di una più comoda soluzione che eviti la responsabilità delle proprie azioni: diventano alibi, vaneggiamenti di disegni più grandi e speranze di senso, o almeno di giustizia. Non so bene se sia Woody Allen o solo il suo protagonista a rinunciare a questa speranza, quando il punto della vittoria capovolge ogni attesa, ogni previsione. E, se c'era davvero un piano più grande perché tutto ciò accadesse, nessuno di questi uomini e di queste donne l'ha capito.
E, mi pare, allo spettatore rimane in bocca il sapore amaro di un'empatia frustrata con il debole eroe di questa storia, tra regole sovvertite e cocenti disillusioni, una sconfitta senz'alcun retrogusto di simpatia nel tanto atteso Match Point.
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