Siamo un gruppo di operatori dei servizi pubblici e del terzo settore, di familiari e di utenti di servizi sociali e sanitari. Da diversi anni abbiamo sperimentato esperienze di inserimento lavorativo di persone con varie tipologie di svantaggio e di fragilità, sostenendo, in alcuni casi, la nascita di cooperative sociali, cercando di rendere operativo l’impianto di una legge, la 381 del 1991, che ha segnato una svolta nella filosofia del lavoro sociale dando l’avvio a tante esperienze che si sono però sviluppate prevalentemente nel centro-nord dell’Italia.
È molto triste, a distanza di vent’anni dalla emanazione di questa legge, constatare come la nostra regione e i nostri enti locali siano stati capaci di non tenerne conto in alcun modo, costruendo al contempo esperienze di inclusione lavorativa che, al confronto con le intenzioni della legislazione originaria, definire mostruosità è un eufemismo.
A chi non è un esperto della materia (ma vorremmo estendere l’invito ai tanti esperti che in questi anni hanno frequentato i luoghi della programmazione e progettazione sociale) consigliamo la visione del film “Si può fare” di Giulio Manfredonia. In esso, con la necessaria traduzione artistico – cinematografica, è narrata, con grande efficacia, la storia di un gruppo di pazienti psichiatrici che, sotto la spinta coraggiosa di alcuni operatori e di un ex sindacalista, fondarono negli anni 80 una delle prime cooperative sociali, ancora oggi operante assieme ad altre migliaia di esperienze in tutta la nazione.
È una storia molto toccante che narra dell’emancipazione di un gruppo di persone che, partendo da una situazione di grave disagio, riuscì ad inserirsi in un percorso di vita dignitosa e portatrice di un senso per la comunità tutta. In essa non restano sottaciuti i drammi e le sconfitte del lavoro sociale, i rischi dell’approccio ideologico alle realtà del disagio e della fragilità umana. E sì che proprio quest’area sociale la legge 381 aveva cercato di declinare in vari modi (disabili, ex-tossicodipendenti, pazienti psichiatrici, ecc.) riservandosi di aggiornarne la lista di tanto in tanto (cosa peraltro disattesa a livello nazionale e che alcune regioni più diligenti hanno provveduto a fare da sole e alle quali una recente sentenza della cassazione ha dato ragione). La semplice nozione di disoccupazione non è infatti sufficiente a definire svantaggio e corsie preferenziali. Se svantaggio e disoccupazione non fossero due categorie profondamente diverse, le cooperative sociali non avrebbero motivo di distinguersi dalle altre cooperative.
Ma parlare di regioni che migliorano una legge nazionale significa in Sicilia parlare una lingua incomprensibile dal momento che la Sicilia (in compagnia della Campania e della Calabria) non solo non ha migliorato la legislazione nazionale, ma non ha mai istituito un albo delle cooperative sociali e non ha mai emanato una legge organica sulla materia (la legge 381 è recepita con poche righe di una legge omnibus).
Questa prima grossa carenza ha lasciato regione ed enti locali nella piena libertà di agire, realizzando gli obbrobri di politiche sociali che tutti conosciamo. Alle migliaia di persone in cerca di occupazione passate di sanatoria in sanatoria si sono aggiunti, quasi nascosti e invisibili, alcuni cittadini con reali svantaggi sociali, fisici e psichici senza programmi personalizzati e monitorati dai servizi. Di loro poco sappiamo poiché essi sono spesso stati il pretesto, la giustificazione per le operazioni clientelari che sono sotto gli occhi di tutti. Alcuni non ce l’hanno fatta, altri hanno vissuto e vivono l’esperienza lavorativa come un parcheggio poco utile per la loro riabilitazione. Il peggio, di questa storia dell’inclusione sociale in Sicilia, sta nel fatto che, sulla base degli input dati da legislatori e amministratori, l’area del terzo settore e della cooperazione sociale, non ha potuto maturare, (se non in poche e significative esperienze e che pure esistono nella nostra regione) quella capacità imprenditoriale per una convincente produzione di beni e servizi.
Non c’è da stupirsi, dal momento che le leggi hanno una funzione pedagogica per i cittadini, per la società civile e per gli stessi politici che le formulano. In loro assenza, ahimè, prevalgono le spinte egoistiche e parassitarie.
Oggi, in un clima politico rinnovato, bisognerà ancora una volta tentare di ricominciare, rifondare una politica dell’inclusione sociale e un’attenzione alle persone più fragili, non dispensando elemosine, ma opportunità di emancipazione. Detto in altre parole una politica che incentivi lo sviluppo di comunità. Per far questo è necessario sostenere la dimensione della qualità, l’unica che può “fare cultura” e pertanto espandersi per imitazione sul territorio della nostra regione. In questa prospettiva abbiamo provato ad elencare alcuni punti irrinunciabili, una sorta di manifesto dell’inclusione socio-lavorativa, sul quale invitiamo a un confronto operatori, politici, enti del terzo settore, cittadini.
- È necessario distinguere tra emergenze sociali ed economiche e politiche d’inclusione per le persone più fragili. Tali sono le persone che, pur avendo capacità lavorative, possono esercitarle solo in situazioni di tutela, protezione e sostegno comunitario; a fianco quindi di persone normodotate, fortemente motivate e formate contemporaneamente, sia sul piano della produzione, sia su quello della relazione d’aiuto. Indispensabile a tal fine l’emanazione di una legge sulla cooperazione sociale in Sicilia che distingua tra settore assistenziale ed esperienze di working-help (cooperazione sociale di tipo b).
- Ricerche e prassi consolidate nella letteratura scientifica indicano che la struttura più idonea a tale scopo è una struttura piccola (10-15 persone) all’interno della quale le persone svantaggiate devono essere almeno il 30% del gruppo. Ciò non significa che uno stesso ente non possa gestire più gruppi produttivi, ma bisogna decisamente sconfiggere la logica del “piccolo è perdente”. Tutto il contrario dei progetti rivolti a migliaia di persone inserite senza criterio in grossi calderoni sociali dove è inevitabile che le persone più fragili soccombano.
- La struttura organizzativa dell’impresa sociale non è tuttavia sufficiente a garantire la qualità dei percorsi personalizzati di inserimento. Essi devono essere convalidati dai servizi pubblici ai quali resta la responsabilità terapeutica o sociale e devono essere supportati da soggetti di comunità (associazioni, volontariato, parrocchie, gruppi organizzati di familiari di disabili ecc.). Solo un’impresa sociale “adottata” dalla comunità può vincere lo stigma, evitare strumentalizzazioni clientelari, essere sostenuta nei momenti di avvio e nel corso della sua evoluzione.
- La cooperazione sociale deve sempre più caratterizzarsi in senso imprenditoriale, deve cioè essere in grado di offrire beni e servizi utili, visibili, gradevoli, come – e forse più – di un impresa normale. Ciò è possibile, come è dimostrato da svariate esperienze in tutt’Italia. Per realizzare questi percorsi sono necessari capitali iniziali che possono essere ricercati nelle opportunità europee, tra le fondazioni nate con vocazione sociale, negli ambiti religiosi e tra i privati. I contributi dovranno tuttavia essere elargiti secondo rigorosi criteri di validazione dei piani di impresa e sostenuti dai soggetti istituzionali e di comunità.
- Le persone svantaggiate dovranno essere socie delle imprese che li accolgono, passando dal ruolo di assistiti al ruolo di protagonisti, assumendo al contempo oneri e onori di tale nuova situazione. In tale veste la creazione di contesti lavorativi accoglienti per persone portatrici di svantaggio potrebbe essere sostenuta sia dagli enti pubblici sia da istituzioni private e cittadini che vogliono contribuire, anche economicamente, allo sviluppo di esperienze di impresa di comunità.
- Parlare di impresa di comunità significa per noi sottolineare anche la necessità di un “lavoro lavorabile” che recuperi la manualità, il rapporto con la natura, la convivialità, il superamento di relazioni anonime spesso derivanti dal prevalere di un agire burocratico e dall’uso sconsiderato di tecnologie, la valorizzazione della dimensione gruppale. Elementi questi che sono stati salvaguardati negli ambiti riabilitativi e dell’inclusione sociale e che sono sempre più rivendicati anche dalle cosiddette persone normodotate.
- Gli enti locali dal canto loro, possono riservare una quota delle commesse per beni e servizi alle cooperative sociali che inseriscono come soci-lavoratori, persone svantaggiate, anche in deroga alla disciplina degli appalti come prevede la citata legge 381/91, garantendo però, al contrario di quanto è avvenuto finora, l’individuazione di servizi utili e visibili alla comunità cittadina, percorsi e protocolli di trasparenza e partecipazione, e protocolli che mettano al primo punto i progetti personalizzati costruiti rigorosamente con il concorso dei servizi sociali e sanitari.
Vincenzo Sanfilippo, sociologo – Antonella Di Leonado, psicologa, Eliana Biamonte, psicologa
Aggiungo un mio commento al documento.
Ritengo che è condivisibile quanto descritto e ciò è estensibile a tutte le problematiche sociali della Regione Sicilia. Nello specifico bisogna partire dal Piano strategico per la salute mentale approvato e pubblicato nella gazzetta ufficiale regionale. Il Piano prevede gran parte di quanto auspicato dai colleghi. Approvato non significa realizzato. L’Assessore alla Salute è orientata alla realizzazione di quanto previsto. In più bisognerebbe attivare un confronto con i parlamentari regionali disponibili per arrivare ad approvare le seguenti Leggi Regionali: Legge sulle Fattorie Sociali, legge sull’Amministratore di sostegno, legge sul testamento psichiatrico, sulla Cooperazione sociale e sull’intervento domiciliare di tipo comunitario per le fasce deboli.
Chi volesse sottoscriverlo puo’ fare avere la sua adesione all’indirizzo v.sanfi@libero.it, indicando accanto al nome la propria professione o l’elemento che lo caratterizza come portatore di interesse e di responsabilita’ (es. assistente sociale, familiare, socio di cooperativa sociale, ecc.)