Pianeti flessibili: la NASA sta studiando come pianeti su orbite eccentriche flettano a causa delle forze mareali. A sinistra un pianeta con uno spesso strato di ghiaccio; a destra uno di tipo terrestre, in cui la flessione è accentuata dalla presenza di strati interni parzialmente fusi. Crediti: NASA Goddard Space Flight Center
Come novelli avventurieri che s’inoltrano in terrae incognitae, gli astronomi cercano di definire con la migliore approssimazione possibile le caratteristiche di quel territorio spaziale alieno dove sperano (anzi, ne sono praticamente certi) di trovare, prima o poi, il “gemello della Terra”, o almeno un accettabile cuginetto. Per questo simulano al computer diverse dinamiche “familiari” a cui si possono trovare di fronte analizzando lontani sistemi stellari. Ad esempio, la situazione in cui un pianeta roccioso che orbita pacificamente nella zona d’abitabilità – quella opportuna distanza dalla stella madre che rende possibile la presenza di acqua allo stato liquido – viene disturbato dall’irruenza di un gradasso gassoso che vuol guadagnarsi un migliore posto al sole. Il pianeta con stazza minore viene costretto su un orbita scomoda, spesso eccentrica, dove le probabilità di mantenere condizioni favorevoli alla vita divengono estremamente basse. Grazie a un nuovo studio, pubblicato recentemente su The Astrophysical Journal, a questi pianeti spodestati viene data una seconda chance, non priva di patimenti.
“Abbiamo trovato qualche buona notizia inaspettata per i pianeti in orbite vulnerabili”, ha detto Wade Henning dell’Università del Maryland, scienziato che lavora presso il Goddard Space Flight Center della NASA e autore principale del nuovo studio. “Dalle nostre simulazioni è venuto fuori che questi pianeti spesso sperimentano un attrito sufficiente a spostarli ‘fuori pericolo’ in orbite più circolari e sicure, più rapidamente di quanto precedentemente previsto”.
Le simulazioni che riproducono lo sviluppo dei sistemi planetari indicano che, nelle prime fasi, i pianeti giganti spesso disturbano le orbite dei pianeti interni, più piccoli. Anche se tali interazioni non sono catastrofiche nell’immediato, possono però portare i pianeti in un’infida orbita eccentrica, una traiettoria molto ellittica che aumenta le probabilità di scontri occasionali con altri corpi, di assorbimento da parte della stella ospite e anche di espulsione dal sistema stellare.
Un altro pericolo potenziale di un’orbita altamente eccentrica è la quantità di effetti di marea (la forza di marea è un effetto secondario della forza di gravità) che un pianeta può subire, passando molto vicino alla sua stella e poi allontanandosi notevolmente. Vicino alla stella la forza gravitazionale è abbastanza potente da deformare il pianeta, mentre nei tratti più lontani dell’orbita il corpo celeste può facilimente tornare alla sua forma originaria. Com’è intuibile, questa contrazione produce attrito, che a sua volta genera calore. In casi estremi, la forza mareale può produrre abbastanza calore da liquefare il pianeta.
Henning e il suo collega Terry Hurford, planetologo presso il Goddard Space Flight Center, hanno esplorato gli effetti delle sollecitazioni mareali su pianeti che, come la Terra, hanno più strati: crosta rocciosa, mantello e nucleo di ferro. Una conclusione dello studio è che alcuni pianeti possono muoversi in un’orbita “sicura” da circa 10 a 100 volte più velocemente di quanto precedentemente previsto, con un tempo minimo di poche centinaia di migliaia di anni, invece di diversi milioni di anni. Durante tale tempo, i pianeti sarebbero portati vicino al punto di fusione o, almeno, avrebbero uno strato quasi fuso, simile a quello al di sotto della crosta terrestre. Le loro temperature interne potrebbe variare da moderatamente calde, rispetto a quelle che ha oggi il nostro pianeta, fino al punto da possedere oceani di magma di modeste dimensioni. La transizione verso un’orbita circolare risulterebbe dunque accelerata poiché la presenza di uno strato quasi fuso renderebbe il pianeta più flessibile, in grado di generare molto calore indotto dall’attrito. Avendo da dissipare anche quel calore, il pianeta perderebbe energia a una velocità maggiore, il che lo porterebbe a “rilassarsi” su un orbita circolare più in fretta, dove avrebbe poi il tempo di riformare una solida crosta rocciosa.
I pianeti freddi e rigidi tendono invece a resistere allo stress delle maree e a rilasciare energia molto lentamente. Dalle loro simulazioni, Henning e Hurford scoperto che molti pianeti di questo tipo in realtà generano meno attrito di quanto si pensasse, in particolare quelli che si trovano più lontano dalle loro stelle. Se questi mondi non sono disturbati da altri corpi, possono rimanere stabili nelle loro orbite eccentriche per lungo tempo. “In questo caso, le più lunghe orbite non circolari potrebbero aumentare la ‘zona abitabile’, perché la forza mareale rimarrà una fonte di energia per lunghi periodi di tempo”, ha spiegato Hurford. “Questa è un’ottima notizia per le stelle fioche o per mondi ricoperti di ghiaccio con oceani sotto la superficie”. Anche se una lastra di ghiaccio è una superficie a basso attrito, uno strato di ghiaccio di migliaia di chilometri di spessore sarebbe comunque molto elastico. Secondo i ricercatori, un guscio come questo avrebbe le caratteristiche giuste per rispondere con forza alle sollecitazioni mareali, generando un sacco di calore e permettendo la trasformazione in acqua liquida di strati ghiacciati a qualche centinaio di chilometri sotto la superficie.
Il team ha modellato pianeti di dimensioni a partire da quelle della Terra fino a due volte e mezzo più grandi. Henning ha aggiunto che le superTerre, pianeti nella fascia alta di questo intervallo di grandezza, probabilmente sperimenterebbero sollecitazioni mareali più forti e potenzialmente potrebbero beneficiare maggiormente del riscaldamento risultante dall’attrito. Tutto questo sempre nell’ottica di tracciare quella composita mappa che definisce modi e tempi affinché un pianeta possa sostenere una qualche forma di vita, così come la conosciamo.
Fonte: Media INAF | Scritto da Stefano Parisini