Il film era stato presentato per la prima volta al Festival del Cinema di Parigi nel 1978 con il titolo di Perceval Le Gallois; in Italia venne proiettato solo nel 1984, con i sottotitoli. Rimase un illustre sconosciuto anche in patria, tanto che lo stesso regista una volta disse scherzando che gli unici ad averlo apprezzato erano gli intellettuali e i ragazzini delle scuole medie. Un vero peccato, perché il film in questione è un capolavoro in piena regola.
Già il nome del regista è tutto un programma: Eric Rohmer, classe 1920, scomparso del 2010, tra i maggiori rappresentanti della Nouvelle Vague francese, movimento nato negli anni ’50 con l’intenzione di dare una scrollatina al mondo del cinema. Fuori dagli schemi senza essere un distruttore, colto senza essere cattedratico, mette in scena un cinema dell’anima, un cinema che va dritto al cuore dell’interiorità dell’uomo, ma con leggerezza, quasi con un sorriso. Ed è un cinema della parola, quella di Rohmer, un cinema che si fa letteratura.
E che letteratura, soprattutto in questo caso, dato che il regista qui si trova a confrontarsi nientedimeno che con Chretien de Troyes, il massimo rappresentante del romanzo cavalleresco del XII secolo; e per giunta con quello che è considerato da molti il suo capolavoro, Perceval ou le Comte du Graal, incentrato tutto sul personaggio del giovane Parsifal e sulle sue peripezie che daranno inizio alla Ricerca del Santo Graal.
La grandezza di Rohmer sta nel non essersi lasciato abbagliare dal Graal e da tutto il carico di esoterismo che si porta dietro nei tempi moderni: il film non ruota attorno al Graal, ma al protagonista, Parsifal, qui incarnato dall’aspetto un po’ naif di Fabrice Luchini. Da buon ex professore di lettere, il regista ha colto il senso profondo del romanzo di Chretien de Troyes di romanzo di iniziazione alla vita di un adolescente, di percorso che trasforma un valletto in un cavaliere, un ragazzino in un uomo.
Parte tutto dall’incontro casuale di Parsifal con i cavalieri nella foresta: Parsifal è ancora immerso nell’infanzia, ha come unico punto di riferimento una mamma iperprotettiva che lo ha cresciuto da sola, isolandolo dal mondo esterno per paura che potesse morire in battaglia come suo padre e i suoi fratelli. Quell’incontro segna la fine dell’infanzia, stimolando il gusto per l’avventura nascosto dentro ogni adolescente (soprattutto dei maschi): a Parsifal ora non basta più la sua casa, l’affetto della madre, vuole diventare cavaliere. La madre lo lascia andare (anche se, come ogni mamma, vorrebbe che restasse sempre bambino), e gli dà i consigli che costituiranno il suo bagaglio di partenza: onorare la donna, ascoltare i consigli degli uomini di esperienza, e pregare. Parsifal va alla corte di Re Artù per diventare cavaliere: ma non sa niente di come si comporta un cavaliere, è un rozzo, un violento, si rende ridicolo perfino davanti a Re Artù. La sua crescita dovrà passare attraverso una serie di incontri. Primo fra tutti quello con Gornemant di Gohort, il signore che lo istruirà nell’uso delle armi, la figura paterna che prima gli era mancata. Poi c’è Biancofiore, la Damigella, che ingentilisce le pulsioni erotiche del giovane e le trasforma in impulso a dar prova del suo valore. Poi c’è il terribile fiasco dell’incontro con il Re Pescatore, paralitico, nel cui castello Parsifal trascorre la notte: assiste alla processione del Santo Graal, e rimane muto come un idiota. Da “bravo ragazzo”, segue alla lettera i consigli del suo padre adottivo Gornemant, che gli ha detto «Chi troppo parla sbaglia». Lui sta zitto e sbaglia doppiamente: se avesse domandato cosa fosse quella coppa che spandeva luce avrebbe potuto guarire il Re Pescatore e salvare il suo regno. Lo saprà solo alla fine della storia, con l’incontro finale che segna il compimento della sua crescita, il momento in cui è uomo e cavaliere: quello con l’eremita suo zio, che gli aprirà la dimensione del soprannaturale.
Il tutto viene trasportato da Rohmer in un’atmosfera surreale che riesce a non essere inquietante, con una scenografia che a me ha ricordato quella di cartone di un libro di fiabe per bambini; l’attenzione ai dettagli è pazzesca, soprattutto nei costumi e nelle armature, ispirati alle miniature del XII secolo.
Un piccolo capolavoro a sé è sceneggiatura, in parte recitata e in parte cantata, che si appoggia direttamente sul testo di Chrétien de Troyes in un misto di lingua d’oil e di Francese moderno, di prosa e di rima; un termine di paragone nostrano potrebbe essere la sceneggiatura di Brancaleone alle Crociate di Mario Monicelli. Frequente è la rottura dell’illusione scenica, con i personaggi che parlano di sé in terza persona. In più, la parola è infiammata dal brio di una musica interpretata per la prima volta da Guy Robert e da quello che diverrà l’Ensemble Perceval; con il risultato che neppure la finale Sacra Rappresentazione della Passione con commento musicale in latino risulta appesantita.
Un gioiello che va gustato fino in fondo, soprattutto per chi capisce il Francese ed è in grado di vederlo senza ingombranti sottotitoli.
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