di Beniamino Franceschini
da FANPAGE, 30 agosto 2012
© Ansa
Non sono mai stato in Sardegna e so che ciò va a mio demerito – ne sono consapevole. Pertanto, chi volesse, può già interrompere la lettura di questo articolo. Tuttavia, ho molti amici e colleghi sardi, i quali mi riportano la situazione critica che l’isola sta attraversando da anni: dalle loro parole apprendo di almeno 20mila posti di lavoro perduti, 100mila lavoratori con accesso alle varie forme di ammortizzatori sociali, 700mila cittadini al di sotto della soglia di povertà – tutte stime probabilmente al ribasso. Affiancando a queste testimonianze le immagini della lotta dei minatori e degli operai del Sulcis, in me sorge una domanda: perché abbiamo abbandonato la Sardegna? Non dirò niente di nuovo sostenendo che quanto accade in quella miniera sia l’esempio più drammatico ed evidente della crisi dell’isola, nonché una delle situazioni più gravi in Italia. La Sardegna sembra aver subìto uno dei peggioramenti più rapidi e atroci nel Paese, e adesso resta accantonata, molto più derelitta degli altri territori peninsulari in emergenza.
Non è possibile abbandonare così una regione italiana – perché d’Italia si tratta. Conosco le istanze indipendentiste di settori dell’opinione pubblica sarda. Propendo, comunque, per la persistenza unitaria, nonostante, riguardo alla Sardegna, si possa parlare di un vero popolo, con una propria dignità storica e una lingua peculiare, al contrario di sedicenti gruppi para-etnici, quali i padani, la cui presunta legittimazione risiede solo in argomentazioni errate o in malafede. I sardi hanno una propria forza storica, poiché da migliaia di anni abitano quelle terre, bagnandosi nel Mediterraneo e mantenendosi in contatto – più o meno pacifico – con altri popoli sin da quando alcune grandiose civiltà ancora non esistevano. Forse, essi furono proprio i temibili e misteriosi Popoli del Mare o gli abitanti della mitica Atlantide! Teniamo ben presente di fronte a noi quanto la Sardegna ha donato all’Italia, già quando l’Unità era ancora un miraggio e molti giovani erano arruolati per morire in luoghi oggi considerati di memoria risorgimentale. Poniamo da parte le ideologie, e pensiamo a quante donne e uomini hanno avuto i natali in Sardegna: Grazia Deledda, Enrico Berlinguer, Francesco Cossiga, Antonio Gramsci, Emilio Lussu, Antonio Segni…
Eppure, la Sardegna è stata abbandonata. Prescindiamo dagli errori specifici della classe politica e dell’amministrazione locale, poiché, basandoci su essi, nessuna regione potrebbe essere salvata. Si devono chiamare in causa, invece, le omissioni nazionali, sia politiche, sia diffuse nell’opinione pubblica, più interessata all’esaltazione mediatica delle bellezze femminili isolane – indiscutibili – che alla realtà sociale. Ci siamo dimenticati per lungo periodo, per esempio, che la Sardegna ha una strategicità militare fondamentale, riguardo alla quale non aggiungo altro, lasciando a ciascuno la libertà d’opinione in merito.
Improvvisamente, una mattina d’estate, ci svegliamo con la protesta dei minatori del Sulcis, uomini come tutti noi, ma costretti a un lavoro malsano e logorante per sopravvivere. Il carbone italiano non è più di moda, il mercato mondiale richiede altro: rapidità, economicità, miglior rapporto qualità/prezzo. Ancora una volta, la politica è costretta a piegarsi ai ritmi della finanza e dell’economia internazionali. Il criterio economicistico è arbitro della libertà, mentre le classi dirigenti italiane si rifiutano di affrontare le problematiche della deindustrializzazione – decisa all’inizio degli anni ’90 in salotti esteri – vergognandosi di citare l’interesse nazionale e di prendere decisioni coraggiose, di lungo periodo. Il concetto di “rilevanza europea” deve essere rielaborato, abbandonando la via prioritaria del percorso all’unità attraverso la progressiva integrazione economica, in favore di quella politica e dei popoli. Eppure, a Bruxelles, Strasburgo e Francoforte si continua a ritenere che un’unione doganale di Paesi possa condurre alla coesione! Oltretutto, non vedo nemmeno i partiti ad accapigliarsi con i lavoratori del Sulcis: con tutto il rispetto, qualche anno fa, le segreterie nazionali avrebbero assunto posizioni ben diverse. «Un fatto, anche il più modesto, conta più di una montagna di ipotesi», diceva il mio amatissimo Pietro Nenni.
In Sardegna, la gente continuerà a lottare, non chiederà assistenzialismo a oltranza o scappatoie, né resterà a piangere: vorrà solo lavorare. Sostenere i minatori del Sulcis e gli operai dell’Alcoa (e con loro ogni lavoratore a rischio per cause esterne) è un dovere civico e morale dell’Italia tutta, senza esclusioni. Non sottovalutiamo, infine, il significato di questa situazione, poiché essa è emblematica del baratro sul quale corre il nostro Paese, sospeso tra il tracollo economico e l’oblìo geopolitico.
Beniamino Franceschini
La versione integrale dell’articolo può essere letta qui: Perché abbiamo abbandonato la Sardegna?