
Non gioco ai videogame ormai da tanti anni. Certo, non è che li schivo a priori schifandoli, mi sono divertito e mi diverto con il co-op in Gears of War 2 e 3 e in Halo: Reach, ogni tanto ci scappa una partitella a un qualche PES con il Mistè, e pensate un po’, ho finito Final Fantasy XIII in, boh, quindici mesi, senza contare che saltuariamente mi torna la RPG-nostalgia e passo ore a leggere recensioni su Gamefaqs e poi spolvero qualche ROM per SNES che inizio sbavante e a cui smetto di giocare tipo mezz’ora dopo. Possiedo poi titoli che, a quanto leggo, bisognerebbe provare a tutti i costi prima di morire, cose come Bioshock, Mass Effect, Dragon Age: Origins e Planescape: Torment, ma non li ho neanche mai provati, sono lì lì, tutto deciso e pronto a iniziarli, e poi mi dico che perdo tempo e, ehi!, è meglio guardare una qualche giapponeseria splatter tipo Dead Bloodfuckin’ Sushi Titties XII che poi finirò per skippare in avanti veloce perché fa schifo. Sono fatto così, che volete farci, non posso farci niente neanch’io.
Il motivo di tutto ciò in fondo è semplice: nei videogiochi io cerco la trama, la narrazione, lo scenario, ché grafica, gameplay e tutto quello che gli viene dietro mi interessano relativamente, e visto che le storie, anche quando hanno enorme potenziale, vedi per esempio i Gears of War, tendono a essere sviluppate con faciloneria e semplicità, confusione e banalità, io allora mi annoio e torno a farmi del male con gli splatter nipponici. Pensavo di essere l’unico a pensarla così, uno snob supponente e altezzoso che con l’XBox 360 si annoia, poverino, e invece c’è qualcuno che, sull’argomento, ci ha pure scritto un libro.
Tom Bissell non è uno tutto a posto, ammette tranquillamente di passare dieci-dodici ore al giorno videogiocando (per non parlare di quando ha giocato trenta ore di fila, sotto sostanze stupefacenti, incollato a GTA), ma è anche giornalista, saggista e critico videoludico, oltre che a essere, prima di tutto, uno scrittore (Einaudi ha pubblicato una sua raccolta di racconti che non ho letto, Dio vive a San Pietroburgo), ed è sotto tale aspetto che si interroga sul perché la narrazione nei videogiochi faccia sostanzialmente pena.
Voglia di vincere si concentra volutamente su una manciata di giochi recenti, proprio per evidenziare il problema odierno senza tirare in ballo titoloni passati che, in fondo, avrebbero sbilanciato la sua analisi, e sebbene io non abbia provato un solo game di quelli in esame (dai già citati Mass Effect e Bioshock, passando per Fallout 3, Far Cry 2, Fable II e vari altri), non ci vuole molto a farsi trascinare dalle parole e dai ragionamenti di Bissell. La sua critica infatti non ricerca soltanto il motivo che sta alla base del saggio, ma si domanda se tentare di costruire una trama forte e convincente, e soprattutto narrarla in maniera adeguata, sia compito possibile e sensato nello scenario videoludico attuale. Ne segue quindi un’analisi che tira in ballo, con profonde interviste, team che assoldano scrittori pur di proporre buoni intrecci, game designer che ritengono impossibile raccontare una storia decente e allora puntano tutto sull’essenza del videogame, ovvero una giocabilità che sia sempre coinvolgente e innovativa, e chi per ora tenta di mediare aspettando il momento in cui l’industria videoludica compirà l’ennesimo passo in avanti.
Il quadro è molto interessante, l’osservazione sullo stato attuale di questo mondo è lucida e ottimamente esposta, Bissell ci mette molta esperienza personale nell’analizzare le opere trattate, utilizzando una prosa ironica senza rinunciare a una certa tecnica propria del critico. Purtroppo non ha risolto i miei dubbi, anzi, ne ha fatto sorgere molti altri che mi indirizzeranno nuovamente verso sconosciuti e mal realizzati horror giapponesi piuttosto che una manciata d’ore passate con il joypad in mano, ma Voglia di vincere è lettura davvero appassionante, che solo la ISBN poteva portare in Italia. Peccato si limiti a poco più di duecento pagine, belle pregne ma che non saziano a sufficienza.
Poi torno settimana prossima a parla di nuovo della ISBN, che quel Player One incensato da tutti ma che io ho trovato esperienza davvero atroce e comatosa, giuro.