Ieri sera sono andata al cinema attratta dal nuovo film di Gianni Amelio, L'intrepido, con Antonio Albanese, film molto bene accolto dalla critica del Leone d'oro di quest'anno.

Premetto che considero Amelio uno dei registi più sensibili nel panorama attuale ed ero stata toccata da quel piccolo capolavoro di Le chiavi di casa, in cui Kim Rossi Stuart non era mai stato tanto bravo e convincente, e inoltre sono una fan di Albanese, un attore di enorme intelligenza, la cui maschera buffa e bonaria è capace di travolgenti trasformazioni (penso a Qualunquemente di Giulio Manfredonia).
Ciononostante non sono riuscita a reggere L'intrepido. Le premesse erano ottime: una trama originale sullo sfondo della crisi economica attuale, ambientata nella malinconia di una Milano invernale, in cui un uomo senza lavoro fisso si adatta, anzi si appassiona, a fare il "rimpiazzo", cioè a sostituire chiunque non possa svolgere le proprie mansioni per periodi da due ore a pochi giorni, in impieghi che vanno dal manovale, al tramviere, dall'aiuto cuoco al consegnatore di pizze a domicilio, dal pagliaccio che intrattiene i bambini in un centro commerciale all'uomo che incolla i manifesti.





Poi, improvvisamente, la trama si fa cupa: apprendiamo che Antonio studia di notte e in tutti i momenti liberi per presentarsi a un concorso pubblico, che è al servizio di un boss malavitoso che non lo paga, che vive da solo, ma ha un figlio (Gabriele Riendina)

Subentra anche l'aspetto romantico: al concorso pubblico passa le risposte ai quiz alla sua vicina che aveva lasciato il foglio in bianco.
Questa ragazza (Livia Rossi)

Ed ecco approntato lo sfondo plumbeo su cui Amelio tesse la tragedia.
Non posso dire altro, perché a questo punto ho abbandonato la sala per difendermi da un imminente attacco di depressione. Grazie, Amelio.
