Il 2016 è un anno bisestile, uno di quegli anni in cui, letteralmente, si rompe appena un po’ la routine quotidiana. L’usanza di aggiungere al calendario un giorno ogni 4 anni alla fine di febbraio risale alla promulgazione del calendario giuliano nell’anno 46 a.C. e ai successivi “decreti attuativi” di Ottaviano Augusto qualche decennio dopo. Il giorno in più veniva introdotto, ogni 4 anni, dopo “il sesto giorno prima delle Calende di marzo”, divenendo il “sesto bis”, da cui l’aggettivo bisestile.
L’esigenza di questo artificio è molto semplice: la Terra compie una rivoluzione completa attorno al Sole in un tempo che è circa, ma non esattamente, lo stesso tempo che la Terra impiega per compiere 365 piroette su sé stessa. Già dall’antichità si sapeva che il tempo necessario è di 365 giorni e un quarto. Un quarto di giorno che viene “messo da parte” per tre anni, per poi essere appunto “speso” nell’anno bisestile. Una correzione, quella giuliana, che era ancora un’approssimazione: rimanevano infatti spiccioli di tempo che, accumulandosi anno dopo anno, rendevano comunque il calendario non sufficientemente preciso per l’orientamento nel tempo e nello spazio. Vediamo di quanto.
Il calendario occidentale è legato all’anno tropicale, ovvero il tempo trascorrente tra due successivi equinozi di primavera. In quel preciso momento, la posizione del Sole nel cielo è esattamente dove l’eclittica (il percorso che il Sole compie attraverso le costellazioni dal punto di vista terrestre) attraversa l’equatore celeste (la proiezione dell’equatore terrestre sulla sfera celeste). Qui, il Sole spartisce il suo tempo esattamente a metà tra il lato diurno e il lato notturno della Terra. Un osservatore terrestre vedrà ritornare l’astro nello stesso identico punto dopo un anno. Per la precisione, dopo 365.24219 giorni.
Quello che accade, quindi, è che trascorsi 365 giorni, rimangono ancora 0.24219 giorni (ovvero poco meno di sei ore) da passare prima che la Terra torni esattamente sulla linea dell’equinozio. Bisognerebbe quindi aggiungere ogni quattro anni 0.96876 giorni per compensare. Arrotondando a un giorno intero, come effettivamente facciamo, s’introduce una sovra-compensazione di poco superiore ai 10 minuti in media all’anno.
A sottrarre un giorno ogni tanto, in modo da far quadrare i conti anche sul lungo periodo, ci ha pensato il calendario gregoriano, quello attualmente in vigore, istituito nel 1582 da Papa Gregorio XIII anche per risolvere il problema del calcolo della Pasqua, su cui l’approssimazione giuliana aveva introdotto un errore rilevante.
La regola del calendario gregoriano è la seguente: un anno è bisestile se il suo numero è divisibile per 4, con l’eccezione degli anni secolari (quelli divisibili per 100) che non sono divisibili per 400. Per questo motivo, l’anno 2000 aveva il 29 febbraio sul calendario, al contrario dei secoli precedenti – eccetto il 1600, bisestile pure quello -, anche se magari a nessuno la cosa è parsa straordinaria.
Anche con la correzione gregoriana rimane qualche secondo di approssimazione, un piccolo errore che comunque è (in media) di un ordine paragonabile alle variazioni naturali nel rapporto tra il periodo rotazionale della Terra (il giorno) e il suo periodo di rivoluzione (l’anno). Per tenere conto di questi effetti, ogni tanto lo International Earth Rotation and Reference Systems Service decide togliere o aggiungere un secondo al Tempo Coordinato Universale (UTC), com’è stato fatto il 30 giugno del 2015, principalmente per compensare il rallentamento della rotazione terrestre dovuto all’attrazione gravitazionale della Luna.
Gli astronomi esprimono il tempo attraverso il giorno siderale, che è il tempo che impiega la Terra a ruotare di 360 gradi rispetto alle stelle, un sistema di riferimento che elimina la complicazione dell’orbita terrestre attorno al Sole. Se volete sapere perché il giorno solare dura in media quattro minuti più del giorno siderale, consigliamo la breve e chiara spiegazione che Luca Perri, dottorando all’INAF di Milano, diede durante il concorso Famelab Italia 2015.
Fonte: Media INAF | Scritto da Stefano Parisini