Ebbene sì, da quando non c'è più "lui" niente è come prima. Nemmeno la cara e vecchia mamma tv, che nell'era del postberlusconismo e con l'avvento del temperato regime tecnico ha perso colpi in termini di share. Non solo l'informazione e l'approfondimento paiono non suscitare più l'interesse di una volta ma perfino la comicità e la satira, tradizionali baluardi dell'intrattenimento nazionalpopolare, stentano a rinnovarsi d'abito e a stare sul pezzo.
Anche uno come me cresciuto a pane e politica, appassionato seguace dei talk-show made in Rai del martedì e del giovedì che furono, rifugiatosi infine presso la nicchia di La7 per sfuggire alla nefasta influenza del monopolio "raiset" e alle scorribande della "struttura delta", ora che todo es cambiado ha ceduto come tanti altri all'andazzo del nuovo corso e la sera, stanco dei soliti schiamazzi fra guelfi e ghibellini, della vuota propaganda a go-go e delle massicce dosi di pestifera demagogia dispensate dai Gasparri o dai Di Pietro di turno, preferisce godersi un bel film avvolto dal calore del focolare domestico. A meno che a discutere di crisi economica e sociale in video ci siano i più credibili tecnici e non i politici.
Questo Paese, dopo un ventennio perduto a far nulla nell'illusione di poter campare all'infinito di rendita, una interminabile transizione da arrestare e cancellare al più presto dalla storia nazionale, ha urgente bisogno di disintossicarsi. E così come rispetto alla politica la maggioranza dei cittadini ha saggiamente optato, come dimostrano gli alti indici di gradimento del governo Monti, per il repentino accontonamento delle panzane recitate a memoria dai grotteschi partituncoli nostrani, allo stesso modo ha stimato di comportarsi nel rapporto col tubo catodico.
Il tendenziale calo di ascolti della "macchina da guerra" Ballarò e dei contenitori politici in genere, il mezzo fallimento del comunque innovativo progetto santoriano di Servizio Pubblico, il flop in prima serata di consolidati format come quelli di Serena Dandini e di Piero Chiambretti, assieme alla crescente disaffezione da parte del pubblico per quasi tutti i programmi di satira (il caso di Zelig è emblematico) non sono affatto fenomeni casuali. E' piuttosto un normale processo di riflusso demosociale, ora che "lui" è uscito di scena.
Perchè fino a qualche mese fa tutto ruotava attorno a Berlusconi: si restava incollati davanti ai monitor per sfogare la propria indignazione contro il vecchio premier e i suoi pretoriani sempre pronti a difenderlo e a negare ogni evidenza, oppure per sostenerlo dagli attacchi dell'orda bolscevica di comici, commentatori e conduttori servi dei poteri forti e nemici del popolo. Due tifoserie, insomma. E pure chi stremato cambiava canale, lo faceva non in virtù di autentiche preferenze personali ma solo per non sentir più strillare di berlusconismo e di antiberlusconismo.
L'esordio del festival di Sanremo di quest'anno, con lo sketch formidabile di Luca e Paolo, ha inteso prendere in giro un po' tutti: non solo i protagonisti di quell'insensato proluvio di immagini e parole che per oltre tre lustri ha dominato la programmazione televisiva ma pure gli stessi teledipendenti succubi, presunti o reali, dell'attuale mutato scenario. E in fondo ha voluto schernire, in modo brillantemente autocritico, gli stessi attori dell'immenso circo satirico rimasti come tutti orfani del Caimano.
Il primo segnale del radicale cambiamento di rotta del pubblico si è registrato col recente spettacolo di Fiorello, un autentico Monti della televisione. Si dirà che quello è un campione e avrebbe fatto il boom di ascolti a prescindere dal contesto politico e sociale ed in parte è vero. Solo che stavolta le sue serate hanno avuto più pubblico della nazionale alla finale dei mondiali di calcio, e ciò vorrà pur significare qualcosa di più e di diverso rispetto ai precedenti. Forse è semplicemente una esagerata voglia di "normalità". Di ritrovarsi, di abbassare il volume, magari anche di accontentarsi ma con serietà e buonsenso. Insomma, può darsi che il pubblico sia più avanti dei propri beniamini televisivi che invece fanno fatica a reinventarsi e a suscitare ancora interesse.
Proprio nello show di Fiorello, come dimenticare la figuraccia di Roberto Benigni evidentemente impacciato e impreparato dinanzi all'inatteso regime-change della politica? Ormai continuare a prendersela con una vecchia gloria come Berlusconi non paga più in termini di audience, è demodé, e perfino un'icona come il "toscanaccio" ha dovuto pagare pegno. Inciampo nel quale invece non è incorso il "re degli ignoranti" (e dei qualunquisti) Adriano Celentano che nell'atteso sermone sanremese - utile solo per la promessa benefica a vantaggio di qualche bisognoso e per la denuncia dell'ipocrita stampa cattolica - si è come sempre prodotto in apprezzate (sigh!) chiacchiere da bar, tenendosi bene alla larga dal rischio di citare il presidente del consiglio precedente ma vincendo ugualmente il suo ennesimo festival dell'ovvietà.
Del resto, dopo una guerra civile strisciante che nella seconda repubblica ha trasformato la tv nel principale campo di battaglia, ci stanno bene anche le pause e le castronerie del molleggiato. Per dirla con le parole di un arguto osservatore come Giampiero Mughini, che nel melmoso habitat televisivo degli ultimi anni ci ha sguazzato eccome, con la caduta di Berlusconi se ne va pure una televisione che "per molti è stata una manna durata a lungo". Ministri, leaderini e giornalisti sempre ansiosi di partecipare come ospiti a trasmissioni sempre uguali a se stesse, dove limitarsi a "dire e ripetere sempre gli stessi sì, gli stessi no, gli stessi ni".
Già, quando c'era "lui" era tutto più facile ed in molti hanno avuto l'opportunità e il demerito di sollazzarsi: argomenti effimeri, incapacità dilagante, sarcasmo fin troppo scontato. Ma il bello viene invece adesso, per la televisione come per la politica, e l'unico divertimento davvero agognato dagli infiacchiti italiani è una sobria, composta e salutare redenzione da stili di vita e comportamenti sorpassati dalla progressiva (e necessaria) attualità.