Una mia riflessione non stereotipata sul Sud su Lavoce.info
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Davvero i lavoratori del Sud sono meno produttivi di quelli del Centro-Nord? Ed è possibile prescindere dal contesto in cui operano le aziende e dalle condizioni economiche del Mezzogiorno? Dagli errori del passato insegnamenti per cambiare le politiche e utilizzare meglio fondi statali ed europei.
Un contesto che non favorisce la produttivitàIn un recente articolo, il Gruppo Tortuga afferma che il valore aggiunto per lavoratore nel Sud-Isole, utilizzato come misura della produttività, è di dieci punti inferiore a quello che si misura nel Centro-Nord. Gli autori osservano che la discrepanza non si rispecchia nel valore dei salari, solo lievemente inferiori, e attribuiscono il mancato allineamento alla contrattazione nazionale. Ma ci sono alcuni fattori, citati dallo stesso Gruppo Tortuga, che possono influire direttamente sulla qualità del lavoro nel Sud ed essere la causa dei divari.
La dimensione media delle aziende meridionali è minore rispetto a quella del Centro-Nord. Le imprese meridionali oltre a essere piccole, raramente si costituiscono in gruppi e l’Istat certifica che più le imprese sono isolate e piccole, meno sono produttive. Ma la dimensione d’impresa è una “scelta” dell’imprenditore oppure è un prodotto dell’interazione fra azienda e ambiente economico? Un’ipotesi di risposta ci viene fornita da come le aziende “sommerse” hanno reagito alla legge sull’emersione del 2001, la quale garantiva sconti fiscali alle imprese che si regolarizzavano. I risultati deludenti di quel provvedimento ci suggeriscono che il sommerso nel Sud è probabilmente una scelta “difensiva” per rimanere sul mercato, piuttosto che una scelta “offensiva” per guadagnare profitto. Pertanto, la produttività dell’azienda dipende da fattori che sono fuori sia dal controllo dell’imprenditore sia dei lavoratori.
Il Sud Italia si caratterizza per una disoccupazione giovanile vicina al 50 per cento e un tasso di disoccupazione generale che è più del doppio di quello del Centro-Nord. Se mettiamo insieme questi dati con il “nanismo” dimensionale delle aziende, possiamo verosimilmente supporre che la pressione sui lavoratori sia molto alta, in quanto sono facilmente licenziabili e subito sostituibili. Inoltre, è altrettanto logico supporre che le aziende finiscano per integrare una parte di legale e una parte di sommerso per quanto riguarda la gestione della forza lavoro. In realtà, una forma occulta di “gabbia salariale” già esiste e comporta il peggioramento delle condizioni generali del lavoro nel Sud. Questo spiegherebbe come mai i salari nel Sud sono i più bassi d’Italia.
Se le aziende non crescono dal punto di vista dimensionale può essere per via del basso livello di domanda aggregata del Meridione e scaricare una parte del divario di produttività sui lavoratori potrebbe accentuare queste dinamiche. Le aziende lamentano le carenze infrastrutturali, una burocrazia pubblica farraginosa e inefficace, ma soprattutto le difficoltà di accesso al credito. Se si vuole una misura pratica di quanto sia diverso fare impresa nel Sud rispetto al Nord basta osservare i dati sul costo del credito, che nel Meridione è il doppio rispetto alle altre aree del paese. La difficoltà di ottenere credito, o averlo a costi fuori mercato, impone a livello intra-aziendale scelte che penalizzano proprio quegli investimenti che servono a migliorare l’efficienza produttiva. La scomparsa di un autonomo sistema bancario meridionale accentua i fenomeni di razionamento, in quanto mette in competizione diretta – e impari – i piani di investimento delle aziende meridionali con quelli delle omologhe settentrionali.
Errori del passato e misure per crescere
Se nel passato lo Stato ha varato una politica economica “sviluppista” dei colossi industriali obsoleti, non meglio è andata per quanto riguarda l’uso dei fondi europei che, come sostiene Antonio Aquino, non hanno cambiato di molto la situazione (http://www.modernizzarelitalia.it/dal-territorio/il-destino-della-calabria-si-decide-a-bruxelles/). Anche perché è stata data un’eccessiva enfasi calla creazione di “nuove imprese”. Nella migliore delle ipotesi, i fondi sono stati erogati ad aziende che, inserendosi in un contesto di bassa domanda, hanno fatto concorrenza sleale a quelle già esistenti, abbassandone ulteriormente i margini di profitto. Nel peggiore dei casi, sono stati percepiti da aziende “predatorie” nate già morte, i cui costi in termini di cassa integrazione hanno finito per gravare sulle casse statali (come già quelli della famigerata legge 488). Le spese per la formazione permanente legate alle strategie di Lisbona hanno invece favorito la nascita di numerosi enti di formazione privati, i quali hanno erogato corsi che non hanno favorito l’occupazione o la produttività dei lavoratori, trasformandosi in meri redditi passivi per gli enti formatori, senza alcuna ricaduta positiva per la società.
Le aziende che nascono devono poter crescere, per consentirlo bisogna ribaltare il paradigmi delle politiche precedenti. Si possono spendere diversamente i fondi statali ed europei usandoli per ridurre il divario infrastrutturale e magari per introdurre un reddito minimo, che consenta la nascita di un contrasto d’interessi fra lavoratore sommerso e l’impresa, oltre a sostenere la domanda aggregata. Bisogna valutare e correggere i servizi pubblici alle imprese, spostando l’enfasi dalle autorizzazioni iniziali a un sistema basato sul monitoraggio e supporto costante, che ne favorisca anche l’accesso al credito. Contrastare definitivamente e vigorosamente la corruzione e la criminalità organizzata, attraverso il potenziamento degli organi di giustizia. Qualificare la spesa non vuol dire necessariamente aumentarla, ma se non si modifica l’ambiente economico meridionale, difficilmente i divari si potranno ridurre con provvedimenti singoli.
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