Perché l’evento sostenibile è quello di passaggio?

Creato il 07 ottobre 2014 da Sdemetz @stedem

La notizia di questi giorni è fresca: Oslo ha detto no ai Giochi Olimpici del 2022. Oslo, dico, non un paese del sud. Oslo, la capitale di una nazione che conosce bene il tema della sostenibilità, una nazione di quelle che noi mediterranei guardiamo con invidia e timore insieme. Sta di fatto che in Norvegia in molti si sono chiesti perché uno Stato dovrebbe finanziare un evento come le Olimpiadi, quando siamo nel bel mezzo di una devastante crisi economica.

Lo spettro però non è solo quello economico. Spaventa pure l’eredità che tali eventi lasciano. Troppe sono le immagini di impianti sportivi abbandonati, in assoluta decadenza.

Nel mio profilo su facebook sono stata invitata a una riflessione proprio su questo tema, che ovviamente non si può esaurire in un post. Mi piace però riproporre qui due spunti interessanti e cercare di capire quale è il problema.

Il primo suggerimento proviene da un architetto, Thomas Demetz, che scrive:

Cosa resta dei grandi eventi? In genere è mia sorella Stefania (eh, vabbé, è proprio mio fratello, ma questo non toglie interesse a quanto scrive n.d.r.) ad affrontare il tema degli eventi, è la sua specialità e negli anni sviluppato una sensibilità molto specifica, orientata alla semantica dell’evento. Questa volta voglio parlarne anche io da un altro punto di vista, quello di architetto e di urbanista, di chi si occupa della costruzione, certo, ma prima di tutto degli usi e delle trasformazioni dello spazio costruito. Lo spunto me lo ha dato post.it, pubblicando le foto della città olimpica di Atene 2004, delle sue rovine. Qui scorrono immagini di impianti che nei giorni delle gare hanno ospitato migliaia e migliaia di persone, visti in milioni di schermi televisivi, e che ora sono terra di conquista del degrado, della marcescenza, del vandalismo. Non è una novità, dopo quanti eventi in Italia il risultato di investimenti significativi sono stati lasciati a destini indeterminati. E’ stato così dopo i mondiali di nuoto a Roma, in parte dopo le Olimpiadi di Torino.

Sarà così fino a che i grandi eventi continueranno ad essere essenzialmente momenti auto-conclusi. Le strategie si sviluppano totalmente e spesso incompiutamente all’interno della manifestazione, puntando su generici effetti di ricaduta (turismo, essenzialmente).

Diversa è la questione delle capitali culturali d’Europa. In quelle occasioni gli investimenti si concentrano su infrastrutture e progetti per la crescita della promozione e della produzione culturale. Spesso diventano progetti di trasformazione delle città dove il disegno urbano e il progetto d’architettura lavorano assieme al recupero di parti intere di territorio urbano, ritessendo maglie dissolte, recuperando le trame della socialità. E’ la città capitale culturale ad essere destinataria di quelle operazioni e non il mondo, attraverso una vetrina che cattura gli sguardi per il tempo dei cantieri, degli eventi e poi è lasciata decadere. Se forse i grandi eventi sportivi potessero copiare qualcosa dalle capitali culturali, valutare i progetti in prospettiva di costruzione, trasformazione, risanamento urbano, in definitiva comprendere il loro potenziale di acceleratore di processo e di fund-raising per i fabbisogni dei luoghi che li ospitano.

Il secondo spunto è letterario e per questo molto fascinoso e arriva da Marco Dominici:

Nella mia totale incompetenza, riflettendo tempo fa su questo argomento, ho pensato a Calvino e alle sue “Città Invisibili“, libro da me molto amato. C’è una delle città, di cui non ricordo il nome, che ogni tanto viene smontata dai suoi abitanti e rimontata altrove, così com’era inizialmente. Solo in un altro luogo. Ripeto, nella mia ignoranza in materia, ma non potrebbe essere così anche per le strutture delle Olimpiadi, soprattutto quelle degli sport, mi si perdoni il termine, più improbabili, o come comunque hanno la condanna di essere utilizzate solo per quell’evento? Ogni paese del mondo dà il suo apporto con un architetto o uno staff di architetti e ognuno contribuisce a queste costruzioni “nomadi”, che passeranno di Olimpiade in Olimpiade come la fiaccola olimpica. Montate e smontate a Montreal per essere rimontate, 4 anni dopo, a Parigi e poi di nuovo smontate. E ognuno contribuisce alla manutenzione e alla eventuale ristrutturazione, anche e soprattutto economicamente.

La cultura è meno distruttiva dello sport? E perché non organizzare un circo itinerante, dove la tenda di una volta diventa il trampolino di oggi?

Andiamo con ordine.

Lo sport è poco virtuoso? 

Un mega evento sportivo ha evidentemente bisogno di infrastrutture, diciamo pure, molto speciali: un trampolino, una pista da bob, una piscina olimpionica la cui manutenzione ha costi immensi. L’idea di prevedere in taluni casi solo strutture smontabili è possibile  e per quanto affascinante,  non è praticabile (anche solo per le diverse normative sulla sicurezza). Eppure qualcosa c’è che si sposta di evento in evento. Le Olimpiadi sono oggi una bolla estranea al territorio in cui i Giochi hanno luogo. L’unica cosa che conta davvero è quel momento “auto-concluso” fatto di narrazione e regole definite da altri.

Il problema credo sia proprio qui.

Le Olimpiadi hanno tanti  attori, come anche il Mondiale di Calcio. Le regole le dettano entità globali esterne e lontane dal territorio. Tali entità, il CIO o la FIFA, richiedono un piano di sostenibilità, ma poi non verificano dopo l’evento se questo è rispettato, né prevedono sanzioni. I comitati organizzatori in genere sono composti da dirigenti che hanno un legame limitato con il territorio (sono manager specializzati, non amministratori della comunità) e tutta la concentrazione sta sull’evento in sé. Finita la festa, la responsabilità rimane alla comunità locale. E per comunità locale s’intende l’amministrazione pubblica, che di fatto, nella definizione del progetto evento ha un ruolo importante, ma non è il regista. Le regole, per dirlo in modo semplice, le scrivono altri. Questo passaggio – dal comitato organizzatore che risponde alle federazioni internazionali alla comunità locale – è un momento delicatissimo. E qui, troppo spesso qualcosa va storto.

Gli eventi culturali sono sempre perfetti?

Le cose vanno meglio nella cultura, ma non sempre. Uno studio della comunità europea segnala che anche alcune capitali europee della cultura hanno investito in strutture che poi sono decadute:

Thessaloniki 1997 (in the same period as Copenhagen 1996) developed a number of spaces that it struggled to use, either because of the absence of programme funding or simply because the capacity was too large for the local audience (Palmer/Rae Associates, 2004b); for some, this was felt to be symptomatic of the absence of strategic planning (Deffner and Labrianidis, 2005). Two years on, Weimar 1999 was also reported as finding it difficult to use new venues fully, as well as closing some museums and reducing numbers of staff and programmes in other organisations.

Questo studio, tuttavia, dice un’altra cosa che mi pare interessante e cioè che in realtà tutte le strutture utilizzate per gli eventi culturali nel quadro di “capitale europea” sono in genere giá previste prima. L’essere capitale europea semplicemente ne facilita la costruzione con l’ottenimento di finanziamenti straordinari. Mi verrebbe da interpretare la cosa in questo modo: in queste esisteva giá un piano ante-evento, un progetto culturale. Inoltre, negli eventi culturali gli interlocutori sono tutti attori della stessa comunità. Vale la pena leggere Nova-Sole24 Ore, della scorsa domenica –  5 ottobre – a proposito dei progetti italiani sulle capitali europee. Insomma, la cultura pare funzionare meglio.

Il problema sta nel contenuto?

Si potrebbe dedurre allora che gli eventi sportivi sono destinati al deturpamento del territorio e quelli culturali, salvo rare eccezioni, alla sua valorizzazione. Ma poiché, sebbene in modo sbilanciato a danno dello sport, entrambe le tipologie di eventi mostrano luci e ombre, la risposta deve per forza stare altrove. Non è il contenuto (sport o cultura) a determinare il successo.

La storia ci racconta, infatti,  che non tutti gli eventi sportivi sono un male e Barcellona 1992 è ancora oggi un modello. E pure le prime rivelazioni su Londra 2012 paiono positive.

Certamente la gestione di un evento sportivo è più complessa ed è sottoposta a maggiore pressione. Troppi interlocutori, troppi registi, troppi interessi meramente economici.

Ma non ci si può lavare le mani adducendo alla complessità una “colpa” per non impegnarsi davvero in una sana legacy a favore di una comunità. La parola magica, per me è solo una: management. Management vuol dire prima di tutto, come punto di partenza obbligatorio, la strategia, il perché e lo scopo. E come secondo punto: le azioni che rendano quello scopo realtà. Jim Collins scrive in un suo libro best seller – Good to Great – qualcosa che parrebbe ovvio, ma evidentemente non lo è: il diventare eccellenti non è mai frutto di un’azione one-shot, bensì il risultato di un lavoro continuo, coerente e costante nel tempo verso uno scopo ben definito.

L’errore è considerare l’evento solo nella sua fase esecutiva, il suo qui e ora. Un evento invece si compone di un prima e di un dopo. E tutto il lavoro deve tenere conto di queste tre diverse fasi. E dunque la ruota deve girare anche dopo. Lo sport troppo spesso si ferma all’ultima premiazione, e poi smette di spingere la ruota e le piscine cadono a pezzi.

Questo è un grafico fatto a mano che ne spiega il senso:

Chiunque decida di ospitare un mega evento, sportivo o culturale, deve occuparsi nella prima fase della definizione strategica sia del durante sia del dopo. Deve, cioè, pianificare cosa accadrà ad ogni singolo spazio anche dopo l’evento. E possibilmente anche a cosa accadrà alle esperienze e alle competenze maturate. Il problema non è sport versus cultura. Il problema è l’assunzione di responsabilità.

Torino, città invisibile?

Se mi lascio trasportare dalle suggestioni delle Città Invisibili di Calvino, potrei vedere in Torino, mia amata città adottiva – un luogo degno dei racconti di Marco Polo, per il suo essere stata una città dilatata nello spazio con due destini opposti.

Da una parte c’è  la montagna olimpica, che  non è riuscita a trasformarsi. Le due settimane di circo, di “ottovolante dalle rigide gobbe” non hanno trasformato un territorio, una strategia, un modo di proporsi. La città invece ci ha guadagnato molto. I torinesi amano dire che le Olimpiadi l’hanno trasformata, ma in realtà non sono state le Olimpiadi. La trasformazione della città era iniziata già decenni prima, quando le fabbriche hanno iniziato a svuotarsi. Le Olimpiadi, per usare una metafora, sono state per Torino semplicemente una bella iniezione di vitamine in un corpo già in movimento. È così che avvenuta la sua trasformazione: da città industriale a città culturale con il passaggio al momento giusto della grande carovana olimpica. Ma è stato un passaggio, non una fine. Mentre nella montagna, quelle stesse Olimpiadi sono state forse solo un sogno.

Per approfondire:

La città di cui parla Marco Domici è Sofronia. Leggete qui e rimarrete stupiti nello scoprire quale parte di città viene smontata per essere  rimontata.

Spunti dal web:

Io, invece, ho trattato questo tema in questi post:


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